domenica 21 febbraio 2010

Il Posizionamento

Il termine “posizionamento” è stato introdotto nella corrente terminologia del marketing nel 1973, quando Al Ries e Jack Trout scrissero una serie di articoli intitolata “The Positioning Era” per la rivista Advertising Age. Il concetto principale su cui si basa il posizionamento è che, in un mercato altamente competitivo e maturo in cui “inventare” nuovi prodotti è praticamente impossibile, la nuova sfida è trovare una “posizione”, un“buco” nel mercato, o meglio nella mente del consumatore.
Secondo i due autori in una società “overcommunicated”, ridondante di messaggi come la nostra, l’unico modo di far arrivare, ed accettare, il proprio prodotto è quello di focalizzarsi su un preciso target a cui inviare un messaggio “ipersemplificato”, duraturo e soprattutto capace di adeguarsi e collegarsi alle esistenti esigenze delle persone:

“The basic approach of positioning is not to create something new and different, but to manipulate what’s already up there in the mind;to retie the connections that already exist”.

Tutto ciò non può essere fatto solo dalla pubblicità , che come affermano Ries e Trout, “è solo la punta dell’iceberg”, bensì richiede un processo più lungo e complesso: il posizionamento, appunto.
E l’unico modo per raggiungere il miglior posizionamento, ed un successo assicurato, è, per i due autori, arrivare per primi ad occupare “quella” posizione nella mente del consumatore.
Se negli anni ’50 predominava la ”era del prodotto” e la pubblicità ne doveva evidenziare le caratteristiche, la USP (Unique Selling Proposition), e, successivamente, nella “era dell’immagine”, al centro della comunicazione trovavamo la “brand image”, più importante delle caratteristiche stesse del prodotto, siamo adesso nella “era del positioning”, in cui l’impresa deve “creare una posizione nella mente del pubblico, una posizione che prende in considerazione non solo forze e debolezze dell’impresa stessa, ma anche quelle dei concorrenti”.

Il posizionamento, dunque, è l’elemento più importante e caratterizzante che, elaborato dalla strategia di marketing e di comunicazione, deve essere fatto proprio e trasmesso nella maniera più adeguata dalla pubblicità e dall’intero flusso di messaggi veicolato dal prodotto stesso.
E’ quindi, il posizionamento, un’area di assoluta competenza dell’impresa che, pur avvalendosi di agenzie o società di consulenza, deve sentire come perfettamente rispondente ai propri valori la scelta di posizionamento effettuata, su cui deve convergere il pieno consenso dell’intera organizzazione: solo così si riuscirà a trasmettere un’immagine precisa, coerente e costante. La costanza del posizionamento, infatti, è un fattore fondamentale per il successo, mentre cambiamenti frequenti della rappresentazione del prodotto o della marca possono essere altamente controproducenti, favorendo la percezione di un’identità confusa e volubile, dunque inaffidabile.

Per lo stesso motivo, qualora si decida di riposizionare il prodotto, sarà d’obbligo tenere presenti sia i posizionamenti pregressi che potranno essere migliorati, attualizzati, leggermente modificati, ma mai del tutto abbandonati, sia lo scenario dei posizionamenti della concorrenza: è infatti molto difficile occupare posizioni già presidiate da altri; si può riuscire al massimo a raggiungere una posizione di “me-too”, in cui è opportuno cercare di differenziarsi in qualche elemento del posizionamento costruendosi una propria identità ed un proprio spazio nell’ambito dell’universo simbolico del prodotto.

Da un punto di vista “tecnico” il posizionamento, come suggerisce Fabris, comporta due operazioni distinte:

1) L’individuazione dei target a cui rivolgersi, attraverso l’utilizzo di una mappa socioculturale, per determinare le possibilità di posizionamento piu adeguate.

2) La rappresentazione mentale della marca, definendo gli attributi e i significati caratterizzanti il prodotto; secondo la definizione di Fabris, infatti “posizionare significa attribuire alla marca delle caratteristiche uniche, indistinguibili, facilmente riconoscibili, persistenti nel tempo, rilevanti per il consumatore”. E’ necessario, cioè, dotare le marca, e il prodotto, di una vera e propria personalità, caratterizzata a livello simbolico da segni incisivi e precisi che ne ripropongano quelle differenziazioni che, a livello materiale, sono ormai sempre più difficili da trovare.

Un posizionamento forte, che riesca a conferire alla marca delle caratteristiche uniche e realmente distintive, permette di occupare una “posizione” difficilmente espugnabile dai competitors e duratura: il posizionamento ideale, infatti, può resistere per anni, basandosi su una personalità forte e riconoscibile per i consumatori, ma anche flessibile, riuscendo a rimanere al passo con i tempi attraverso un costante “upgrading” in cui, pur restando stabili i significati alla base dell’ identità, i significanti si adeguano alle nuove modalità comunicative in modo agile e sintetico.

Il retromarketing tribale

Sempre in ambito di marketing tribale, vi sono una serie di strategie, detti di retromarketing tribale, particolarmente incentrate sul concetto di temporalità e di autenticità.
In maniera completamente opposta al marketing orientato all’innovazione, il retromarketing tribale cerca addirittura di dissimulare i cambiamenti innovativi per cercare di diminuire il frustrante senso di sradicamento dell’uomo contemporaneo.
Come appena detto, l’accento in questo caso è posto sui concetti di autenticità e di arcaismo, tanto cari a certe tribù di consumatori, per accentuare i quali, il marketing si sforza di recuperare i dettagli significativi che recuperano un’altra epoca, perfezionando ed adattando alla nostra epoca prodotti e marchi che in origine sono stati veri e propri cult per i consumatori, cercando di conservare la capacità di costruire, sviluppare e mantenere il legame con persone e situazioni di un’altra epoca (pensiamo, ad esempio alla nuova Vespa, alla serie vintage dei jeans Levi’s o al Nuovo Maggiolino della Volkswagen).

Il marketing tribale

[…] con il passaggio dall’epoca moderna all’epoca “post-moderna”, nel comportamento di molti consumatori, si è assistito a un seppur parziale spostamento di interesse dal prodotto in sé per sé, ai legami ed alle identità sociali che i beni di consumo generano.
Molti sono stati i sociologi (ad esempio, Michel Maffessoli e Francesco Morace) che hanno messo in risalto come oggi, allo “sradicamento moderno”, in cui l’individuo è rimasto solo, libero e in balia di valori quali quelli della libertà, dell’innovazione e della globalizzazione, si accompagna, di contro, una sorta di “ri-radicamento post-moderno”, in cui il soggetto fa parte di una comunità,
“[…]condensazione istantanea, fragile sì, ma al tempo stesso oggetto di un forte investimento emozionale.”(Maffessoli, M., 2004, p.127)
Il legame che tiene in vita queste comunità ha fatto nascere nuovi valori che si oppongono a quelli dell’individualismo sfrenato: essi sono quelli dell’autenticità, della vicinanza e della localizzazione.
Insomma, dopo i primi quindici anni dalla nascita del concetto di post-modernità, in cui, tra le pagine dei sociologi, l’individuo ha fatto da protagonista indiscusso ed il contratto sociale ha soppiantato l’idea di comunità, negli anni ’90 alcuni sociologi hanno incominciato a parlare della comparsa di alcuni tentativi di ri-aggregazione sociale:
[..]
Ma queste comunità, pur avendo delle caratteristiche che le avvicinano ai raggruppamenti pre-moderni, non coincidono con essi; le cosiddette “tribù postmoderne” si vanno comunque ad inserire nell’ambito della società contemporanea, in cui il consumismo e diventato il motore della costruzione identitaria dell’individuo occidentale.
In tale nuovo contesto, il concetto di tribù cambia notevolmente. Non si tratta più di comunità legate dall’origine comune, né dalla religione, né da uno comune scopo. Quelle post-moderne sono comunità molto più effimere che si fanno e disfanno nel giro di pochissimo, legate, come sono, dal comune interesse del momento.
I membri di queste “neo-tribù post-moderne” non amano sottostare a regole troppo rigide e pesanti, non fanno parte di un ordine di una confraternita, di un’associazione o di un club, né nascono dall’operazione mentale di qualche agente esterno (non sono uno “stile di vita, una nicchia, o un segmento). Anzi, è molto difficile definire le caratteristiche dei componenti di queste neo-tribù, perché essi sono molto vari; i componenti stessi, spesso appartengono a più tribù contemporaneamente a seconda dei settori della vita quotidiana e dei loro personalissimi interessi.
Raggruppamenti emozionali di questo tipo sono sempre esistiti (si pensi ai mods o agli skinheads) […]

Oggi, ciò che riesce ad accomunare gli individui è proprio il fatto di consumare tutti la stessa cosa, insieme e nello stesso momento.
È questa la “strada concettuale” che ha portato il marketing ad interessarsi al vissuto quotidiano dei suoi consumatori al fine di riuscire, almeno in parte, a definire i momenti dell’interazione tra prodotti, servizi e clienti alla ricerca di una propria identità.
Il marketing tribale nasce in Europa, in contrapposizione al marketing one to one d’origine americana. Il suo principale teorizzatore è stato Bernard Cova che nel 2003 ha messo in evidenza come, nell’ottica Europea, e ancor più in quella mediterranea e latina, il consumismo attuale, invece di tuffarsi nelle onde sfrenate della personalizzazione, dell’individualismo e dell’innovazione, dà luogo a quel “ri-radicamento” di cui abbiamo appena parlato, attraverso la ricerca di comunità emozionali, legami sociali e radici comuni. All’individualismo ed al marketing one to one di tipo anglosassone, si oppone, così, la ricerca di legami sociali di tipo arcaico in seno a raggruppamenti che hanno sempre più le sembianze di tribù.
“Il marketing one to one usa la relazione come un mezzo per giungere ad uno scopo - cioè arrivare all’individuo - mentre il marketing di tipo tribale fa della relazione il vero scopo, e dell’emozione condivisa il mezzo per giungere a tale scopo.” (Cova, B.)
Il marketing tribale nasce (contrariamente a quello one to one) con l’obiettivo di mantenere e rinforzare (non tanto di creare) i legami fra i clienti, aiutandoli a condividere le loro passioni ed i loro interessi.
[…]
Nell’ambito di queste nuove tribù postmoderne, il prodotto non è la ragion d’essere, il motivo dell’unione fra i membri, che sono attratti gli uni agli altri più che altro da interessi comuni e dal piacere di condividere certe emozioni. In questo caso, il prodotto ha piuttosto una funzione che è paragonabile a quella del totem per le tribù primitive; esso funge da polo d’attrazione e da supporto per i loro “riti”.
Nel marketing tribale, ci spiega Bernard Cova, è fondamentale capire che non basta inserire della “comunitarietà” nell’immagine di marca o di prodotto (pratica che si è diffusa notevolmente dalla metà degli anni ’90), né che sia sufficiente creare delle banali comunità di marchio intorno al proprio brand (strategia adottata spessissimo nella costruzione della propria formula di webmarketing, inserendo la possibilità di creare forum e newsletters all’interno del proprio sito). Anche se dovessero andare in porto, queste strategie non producono neo-tribù, ma solo raggruppamenti di consumatori interessati ad un prodotto.
Nel loro approccio al marketing tribale, è bene che la maggior parte delle aziende capisca che la marca non può creare una tribù ex novo, la marca può solo rinforzarla, può lavorare in partnership con essa al fine di creare uno scambio reciproco.
Da ciò ne deriva che è necessario che un’operazione di marketing tribale degna di nota sia sempre supportata da una tribù effettiva, già esistente, che faccia da prova alla comunicazione aziendale circa il valore di legame della sua offerta.
“Il marketing tribale si sforza di sostenere il legame sociale fra soggetti uniti da una passione comune (la tribù).” (Cova, B.)
[…]

Il guerrilla marketing

Il termine guerrilla, nell’accezione più comune, nasce “in ambito militare per indicare un particolare tipo di lotta armata, condotta da unità irregolari, contro potenti eserciti regolari”.
Prima ancora di entrare a far parte del linguaggio del marketing, il termine guerrilla è stato adottato da vari gruppi, sia appartenenti al mondo dell’arte (guerrilla art), sia a quello dell’ideologia (comunicazione guerrilla), a loro volta, ispirati alla nota guerrilla urbana appena citata.
Per quanto riguarda la cosiddetta guerrilla communication, con questo termine si intende un particolare tipo di comunicazione messa in atto da alcuni piccoli gruppi, appartenenti al mondo della controcultura che utilizzano pratiche finalizzate ad attuare interventi sovversivi nell’ambito dei più comuni processi comunicativi. I metodi più comuni utilizzati in questo contesto sono : la divulgazione di falsi scoop; i travestimenti; azioni sovversive di vario tipo; l’inversione di senso di alcuni messaggi pubblicitari
[…]
La guerrilla art, invece, è quel tipo di arte che si esprime grazie ad un linguaggio sovversivo, provocatorio, dissonante legato sia alla cultura “alta” che a quella proveniente dal basso. Lo scopo principale di questo stile espressivo è quello di “mettere a nudo il sistema dell’arte con una continua provocazione e acuti detournament2”. La guerrilla art è un modo di fare arte alternativo ai tradizionali metodi di espressione, le cui origini possono essere rintracciate nelle avanguardie artistiche del XX secolo (futurismo e dadaismo, passando per movimenti come il fluxus e il situazionismo).
[…]
“Ma, come spesso accade, l’arte diventa tecnica e subito viene inglobata dal sistema economico-produttivo e Jay Conrad Levinson s’inventa il termine Guerrilla Marketing. Di lì in poi, paradossalmente, il termine Guerrilla Marketing (o Communication Guerrilla) inizia a subire tutta la superficialità ed il pressapochismo da cui le sue avanguardie volevano salvarci, confondendo distribuzione di campioncini con eventi creativi, marketing con critica sociale3.”
Forse i termini di questa ultima citazione sono pochi ortodossi per una tesi di laurea, ma essa descrive perfettamente ciò che è successo.
Il termine guerrilla entra a far parte del marketing grazie a Jay Conrad Levinson che dal 1989 al 2005, in soli sedici anni, ha scritto più di trenta volumi sulla pubblicità guerrilla e sul guerrilla marketing.
Come per la guerrilla art e la guerrilla communication, anche la pubblicità guerrilla nasce con l’intento di emergere tra miliardi di messaggi pubblicitari ed attirare l’attenzione del consumatore grazie al suo modo di agire e comunicare molto innovativo, solo che in questo caso lo scopo è il profitto.
Essa usa tecniche originali, non convenzionali, imprevedibili e fuori da ogni schema: “L’unica regola è non avere regole”
I media utilizzati spaziano dalle installazioni, a stickers appiccicati ovunque, agli stamps sui muri, a flyers particolarmente originali, fino ad arrivare alle scritte nei posti più impensati, come il fondo di un bicchiere, l’asse all’ingresso di un parcheggio. O la fronte di alcuni ragazzi incaricati di andare in giro per strada e farsi vedere dalla gente.
[…]
Ma non solo. Oltre ad inventare nuovi mezzi, la pubblicità guerrilla trova anche nuovi modi per utilizzare i vecchi. Ad esempio, a Tokyo, la Adidas ha utilizzato un cartellone pubblicitario raffigurante un campo di calcio per far giocare due veri calciatori, appesi ad una corda.
Dati i suoi bassi costi, il guerrilla marketing si presta bene per la comunicazione di brand e di prodotto delle piccole aziende che non hanno la possibilità di utilizzare grossi budget per grosse campagne sui media tradizionali. Ma viene abbondantemente utilizzato anche dai megabrand e dalle multinazionali che utilizzano questo metodo per lo più per aumentare la visibilità del marchio.
[…]

Il simplicity marketing

Steve Cristal1, nel 2002, proporrà un'ulteriore formula di marketing che cerca di sopperire al fatto che oggi la gente ha poco tempo per ascoltare ed acquistare e, di contro, i messaggi pubblicitari, i prodotti e le offerte sono troppi e spesso troppo complessi.
“Make it simple” è lo slogan del simplicity marketing, volto alla semplicità a 360 gradi: dal prodotto al packaging, alla pubblicità, all’acquisto.
Questa teoria si basa sull’assunto che per i consumatori di oggi, consumare sia diventato più un problema che un piacere e quindi che sia necessario escogitare delle soluzioni che rendano più semplice questa pratica.
Il concetto della semplicità non è nuovo, molte aziende che producono beni per anziani o bambini si sono sempre sforzate di adottare formule di vendita che risultassero semplici per il cliente.
Il problema è che oggi, bombardati da migliaia di informazioni al giorno, siamo tutti ad essere frastornati e (secondo Cristol) ci ricordiamo solo di chi è effettivamente sintetico, chiaro e coerente (se non addirittura unbranded). Questo disagio spiegherebbe il successo della moda minimal, sia nell’arredamento che in molti altri settori del consumo.
[…]
Negli ultimi anni, la strategia del puntare alla semplicità è stata usata largamente anche nel marketing iconico-visivo. Molti operatori di marketing hanno notato che l’innumerevole quantità di testi che ci circondano ogni giorno, tra quotidiani, riviste, libri e documenti web, creano una certa “verbofobia” nel consumatore che tende così a prestare sempre meno attenzione verso la parola scritta. Per questi marketer, i simboli ed i loghi dovrebbero perciò avere un maggiore appeal sul destinatario della loro comunicazione (si pensi al baffo o “swoosh” della Nike). In tale cotesto, un numero sempre crescente di marche preferiscono così affidarsi ad una visual identità semplice e pulita, basata sempre più su simboli di immediato riconoscimento, “globali”, che puntino sulle emozioni più che sul ragionamento. […]

Il viral marketing

Anche il concetto di marketing virale è stato formulato da Seth Godin7 nel 2000, nel suo volume Propagare l’idea virus, riprendendo la teoria introdotta da Malcom Gladwell ne “Il punto Critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti”.
La tesi di Malcom Gladwell è che un'idea, una moda o un comportamento sociale si diffondano come le epidemie. Gli stessi modelli matematici che ci spiegano la diffusione dell'influenza o dell'AIDS, possono aiutarci a capire, ad esempio, come la gente si sia affollata per acquistare le magliette della Guru o per vedere il film Harry Potter, oppure come sia stato possibile che molti giovani improvvisamente si siano messi a lanciare sassi dai cavalcavia.
Ad un certo punto si raggiunge il cosiddetto punto critico, oltre il quale si ottiene un effetto a valanga. L’autore, nel suo volume, arriva a formulare una “legge”, da lui chiamata la “Regola del 150”, che ha addirittura le sembianze di una legge scientifica :
“Bastano 150 persone che frequentino gli stessi cinque o sei bar, per causare un’epidemia che infetta una città di 100 mila abitanti8.”
[…]
Seth Godin riprende le teorie di Gladwell per formulare una vera e propria strategia per il marketing.
Tenendo presente che le mode, le tendenze e conseguentemente i consumi, spesso hanno le sembianze di “epidemie” improvvise ed inarrestabili, egli propone di andare ad indagare su quali (o meglio chi) siano i cosiddetti connettori, cioè alcuni soggetti (generalmente pochi) che propagano il virus che poi si diffonde attraverso il “passaparola”. Questi connettori possono essere sia leader di una certa comunità o di un certo gruppo, ma anche i venditori stessi.
Godin, quindi, arriva a concepire una formula di marketing che spinga gli operatori del settore a prestare molta attenzione al passaparola, strumento molto antico e potente che, grazie ad Internet, ha incrementato la sua presenza e la sua forza.
[...]
Una strategia virale molto usata dalle grosse aziende è quella di regalare il prodotto che si desidera pubblicizzare ad un gruppo di persone, in modo che esso circoli da soggetto a soggetto, creando un circolo di passaparola che diffonda consapevolezza fra i consumatori e ne inneschi il desiderio di acquistarlo. Ad esempio, la Sony Ericsson ha lanciato negli Usa il suo primo cellulare con fotocamera regalandolo a gruppi di persone che dovevano farsi fotografare per la strada facendo conoscere il prodotto e soprattutto facendolo usare, per innescare nel potenziale acquirente contemporaneamente: un nuovo desiderio, la consapevolezza di un nuovo servizio e, nello stesso tempo, proponendo un nuovo gioco ed un modo di comunicare che non si conosceva ancora.
[...]

Il reverse marketing

Un’altra definizione innovativa è quella di “marketing al contrario, basato sull’assunto che il capo dell’azienda sia il consumatore e che prima venga questo e poi l’azienda. Insomma, invece di marketing business to consumer (BtoC), qui si parla di marketing consumer to business (CtoB) e di Customer manager e non di Product Manager.

Il concetto di riverse marketing si presenta come un’evoluzione del marketing orientato alla qualità ed al cliente ed è stato esposto per la prima volta da M. R. Leenders e D. L. Blenkhorn già nel 19876; solo che allora i tempi non erano ancora maturi perché le loro tesi venissero accolte dalle aziende, ed il riverse marketing ha dovuto attendere una decina di anni per diffondersi.
Il riverse marketing ha molti fattori in comune con il marketing one to one. La differenza giace nel fatto che laddove il marketing one to one punta alla personalizzazione del dialogo, limitandosi però alla centralità del cliente, il reverse marketing cerca di evidenziare e sfruttare anche i numerosi vantaggi che possono scaturire dall’intero ambiente esterno. Nel reverse marketing, cioè, l’idea di centralità del cliente evolve in quella di centralità del mondo esterno.

Il riverse marketing cerca di puntare all’eccellenza attraverso una forte predisposizione ad ascoltare l’ambiente ed assecondare gli interlocutori esterni di ogni tipo. Ciò dovrebbe permettere, secondo questa teoria, di creare una rete relazionale generatrice di business, in grado a sua volta di riprodursi in modo più che proporzionale, se non esponenziale.
Il reverse marketing ha, quindi, come principale obiettivo, quello di creare l’ambiente ottimale in cui la clientela, i fornitori e tutti gli attori esterni si muovano verso l’azienda grazie alla continua presenza e al continuo mantenimento di una relazione.
[…]

Il permission marketing

Nel 1999, è stato Seth Godin a coniare il termine Permission per indicare quelle strategie di comunicazione di marketing che presuppongano la costituzione di una “relazione” tra l’azienda ed il consumatore basata sul consenso di quest’ultimo e, per questo motivo, contrapposte all’interruption marketing.
“Il tempo è divenuto una risorsa scarsa per chiunque e non serve più a molto alle aziende sbattere in faccia messaggi pubblicitari in momenti di pausa o in momenti di ozio del consumatore” (Godin, S., op. cit, 2000, introduzione)

Questa teoria deriva dalla constatazione, da parte di Godin, che il consumatore ha sempre meno tempo per dare attenzione a sempre più messaggi pubblicitari. Per cui egli ha ritenuto necessario escogitare una formula di promozione meno intrusiva in cui al consumatore viene chiesto il permesso di divenire il destinatario di messaggi pubblicitari pertinenti ai suoi consumi, interessi, aspettative e necessità.
Nella sua teorizzazione originaria, la strategia di permission marketing prevede che l’ottenimento del permesso del consumatore debba avvenire gradualmente e senza risultare troppo intrusivi.
[…]
In questo modo, secondo Godin, l’azienda sarà percepita non più come un’estranea che vuole invadere la privacy del cliente, ma come amica che vuole guadagnarne il consenso. In questa maniera, la clientela potenziale dovrebbe divenire molto più disposta a prestare attenzione ai messaggi promozionali e ad effettuare il primo acquisto.
L’investimento iniziale in questo caso sarebbe molto maggiore di quello di una comune strategia di interruption marketing, ma porterebbe ad una fidelizzazione del cliente più a lungo termine.
Godin si rivela critico nei confronti della teoria del marketing one to one perché improntata più all’aumento delle vendite e delle transazioni che all’aumento dei clienti; in quest’ultimo tipo di strategia, i costi, i rischi e gli sforzi maggiori sono impiegati per aumentare la base dei clienti.
Il permission marketing, invece, si concentra nel rendere clienti effettivi tutti i potenziali, cercando di avere una relazione condivisa e discreta e vendere loro quello che chiedono.
[…]

Il marketing one to one

A parlare di marketing one to one sono stati Don Pepper e Martha Rogers che nel 1996 e nel 1999 presentarono le loro idee su Internet, costruendo un apposito sito.
Il marketing one to one è tanto semplice da spiegare quanto difficoltoso da attuare. L’idea su cui si basa è molto buona, ma rappresenta un’eventualità utopica, almeno per le grandi e medie aziende: quella di trattare ogni singolo cliente in maniera differente, al fine di avere una clientela soddisfatta fedele e redditizia.
Il programma della strategia one to one di divide in quattro fasi:
1. identificazione del cliente
2. differenziazione dello stesso da altri
3. interazione
4. personalizzazione dei prodotti e servizi offerti
Queste quattro fasi sono correlate da attività finalizzate a conoscere i propri clienti sempre meglio e ad accontentarli sulle loro singole esigenze.
È importante sottolineare che non si tratta dei semplici programmi fedeltà del cosiddetto Frequency Marketing, finalizzati a conoscere meglio i gusti dei clienti (come le carte fedeltà dei grandi ipermercati); il programma del marketing one to one prevede la costituzione di enormi database che tengano conto in modo dinamico e propositivo di tutta una serie di richieste più o meno espresse dal consumatore. Successivamente, gli operatori decideranno di soddisfare o meno le richieste in base all’importanza del cliente.
[…]

Il Marketing esperienziale e dell’occasione

“Non mi preoccupa chi pratica sconti, ma chi offre un’esperienza di acquisto migliore”
(Jeff Bezos, Presidente di Amazon. Com)

Sono stati Joe Pine e James Gillmore a parlare par la prima volta (nel 1993) della necessità di accostare il tema delle esperienze a quello della customizzazione di massa. Esperienze che divertano il cliente e forniscano i beni e servizi di una certa “teatralità”. All’inizio il marketing dell’esperienza è stato per lo più considerato riguardo ai punti vendita. Successivamente, con l’avvento della Rete, Internet ha dato molte altre possibilità per mettere in atto strategie volte a donare molteplici occasioni di consumo e di vita al consumatore.
In un mondo fatto di sempre più prodotti, tutti dalle elevate qualità, il rischio più grosso è che essi appaino tutti uguali agli occhi del consumatore. È questo il motivo per cui le aziende hanno sentito la necessità di aggiungere sempre più fattori di differenziazione. In questo contesto, il marketing dell’esperienza si pone l’obiettivo di aggiungere degli attributi al prodotto o alla marca, che non siano però costitutivi di essi, bensì che accompagnino il cliente durante l’intero processo di acquisto.
Si pensi alle molteplici alternative che vengono offerte al consumatore attraverso i grandi centri commerciali della grande distribuzione o ai locali e negozi moderni come l’Hard Rock Café che nacquero proprio intorno agli inizi degli anni ’90 94
In tale circostanza, il vero prodotto diviene l’esperienza di consumo, e con essa, il piacere ed il divertimento, che contribuiscono a creare distinzione, interesse, attenzione ed affezione (sebbene molte volte queste esperienze risultino un po’ forzate e fasulle).
In questo tipo di marketing, le esperienze create dalle aziende hanno l’obiettivo di coinvolgere emotivamente e profondamente il consumatore e pongono quindi in primo piano la gestione delle emozioni suscitate nell’individuo.
[…]
L’azienda, grazie a questo nuovo tipo di marketing, è messa nelle condizioni di poter stupire veramente. Basta riuscire ad individuare nuove occasioni di consumo, o di re-interpretare quelle gia esistenti, al fine di incontrare le nuove sensibilità delle persone.
“La bellezza dell’occasione è seducente perchè implica – come diceva Stendhal – la promessa della felicità: essa è connessa con la novità, la curiosità, l’incompiutezza e l’ebbrezza.”2
In tale contesto si noti come ormai l’analisi di mercato vada sempre più incontrandosi con la sintesi creativa e progettuale, in quanto i competitor non sono più soltanto altre marche o prodotti, ma addirittura altre opzioni di vita.
[…]
In tale contesto, il Future Concept Lab37 ha formulato dieci chiavi d’accesso3 al marketing dell’occasione utili per interpretare lo stile di consumo che queste strategie possono indurre:

• Sostituire in termini strategici l’occasione di vita allo stile di vita.
• Creare l’occasione fruitiva attraverso uno scarto nella quotidianità proposto dal servizio o dal prodotto
• Produrre corto-circuiti tra storia del prodotto e poetica del quotidiano.
• Individuare occasioni potenziali nella lettura del contesto, in cui inserire esperienze di valore.
• Integrare l’identità del prodotto con servizi fondati sull’occasione.
• Diventare attrattori strani attraverso occasioni speciali.
• Lavorare sulla diversità delle culture per suggerire occasioni alternative.
• Considerare con attenzione le specificità dell’occasione: sorpresa, novità, eccitazione attraverso il prodotto/servizio.
• Progettare spazi di vendita che siano occasioni di fruizione sperimentale.
• Immaginare comunicazioni che rivelino nuove occasioni d’uso.
© Future Concept Lab

[…]

Ci accingiamo, ora, ad approntare un breve excursus sulle principali nuove strategie ideate negli ultimi quindici anni che rientrano nella categoria del “nuovo marketing”.
Si noti che, quelli che stiamo per presentare non sono differenti “religioni, filosofie o dogmi”, sono semplicemente nuovi “stili” e definizioni delle più recenti strategie adottate nel campo del marketing.
In molti casi si vedrà come esse siano più che altro nuove applicazioni di regole precedenti e come possano essere utilizzati contemporaneamente o alternativamente a quelle del marketing di sempre.

Il Marketing relazionale

Il concetto di Relationship Marketing è stato formulato per la prima volta da Regis McKenna1 nel 1992.
Per marketing relazionale si intende un marketing incentrato sull’obiettivo costante di instaurare una relazione personale e diretta tra azienda e consumatore. Grazie ad esso, il “monologo narcisista” che ha segnato gli ultimi venti anni di storia della comunicazione d’impresa, si è indebolito a favore di comportamenti più orientati al dialogo ed all’ascolto.
Nel nuovo modello proposto dal relationship marketing, la relazione (anche in termini di passione condivisa e di motivazione reciproca) finalmente arriva a precedere il consumo.
[…]
Il relationship marketing deriva dalla presa di coscienza, da parte di molte aziende, che il capitale relazionale dell’impresa con i clienti, i dipendenti ed i fornitori abbia molto più valore per un’impresa, di quanto ne abbiano finanche le sue caratteristiche fisiche.
[…]
È chiaro che le aziende debbano ripensare a condizioni migliori per instaurare un vero dialogo con il consumatore e per far sì che questo dialogo porti a buon fine.
È importante che esse capiscano che oggi non c’è più un “consumo che precede la relazione”, per cui prima ci si dota di un prodotto considerato utile per rafforzare l’identità e poi se ne parla. Questo modello, che fino a qualche anno fa ha funzionato con straordinaria maestria, oggi non è più adeguato.
Il consumatore contemporaneo è ormai abituato a parlare, informarsi, ragionare e capire se veramente valga la pena comprare un prodotto prima di acquistarlo.
Dunque la relazione a cui un’azienda deve puntare deve essere quella che metta il cliente nelle condizioni di sentirsi considerato intelligente prima ancora che eccitato dal possibile acquisto e deve fare in modo che il consumatore percepisca la comunicazione dell’impresa in questione come un’opportunità reale e non come una becera promozione.

La struttura dell’offerta di pubblicità su Internet è in fase di continua evoluzione. Gli attori di questo mercato sono aziende con diversi gradi di specializzazione rispetto sia ad Internet che al mercato pubblicitario.
E’ evidente che il pieno sfruttamento delle potenzialità della pubblicità in rete è una condizione fondamentale per lo sviluppo dell’economia legata ad Internet. Per raggiungere questo obiettivo è necessario conoscere e saper sfruttare in maniera opportuna le diverse strategie di comunicazione basate sulla rete. Ecco alcuni esempi.

• Strategia finalizzata alla notorietà del marchio o del sito: questa è la forma di utilizzo del web che meno sfrutta le opportunità offerte da Internet. Generalmente una campagna di questo tipo consiste nell’inserimento di banner in siti caratterizzati da un alto volume di traffico e con una targettizzazione non obbligatoriamente determinata. L’obiettivo di queste campagne è quello di diffondere il brand o far conoscere un prodotto senza avere la finalità principale di indurre il navigatore nel ciccare sul banner e visitare il sito. L’esposizione del banner aumenta, quindi, la notorietà del marchio pubblicizzato, come avviene per uno spot televisivo o una pagina pubblicitaria su una rivista. In questo caso, il web viene utilizzato con logiche di comunicazione proprie dei media tradizionali: variabili strategiche sono la numerosità del pubblico raggiunto almeno una volta dal messaggio (reach) e il numero medio di esposizioni realizzate per individuo (frequency).

• Strategia finalizzata alla generazione di visite: in questo caso la campagna è concepita per generare traffico su un particolare sito web target. La valutazione dell’efficacia della campagna deve essere effettuata valutando e misurando il numero di visite al sito web pubblicizzato generate dallo stesso annuncio e il numero del click-through, cioè il numero delle volte in cui il banner dell’inserzionista è stato cliccato. La valutazione dell’efficacia di questo metodo deve essere corretta considerando che un navigatore che ha cliccato sul banner può decidere di interrompere il trasferimento dei file che compongono la pagina web associata (target ad), perché per esempio si rende conto di aver commesso un errore o perché la pagina è troppo lenta nel visualizzarsi, e via dicendo: in tutti questi casi l’advertising server registra un click-through, pur non verificandosi alcuna visita reale al sito pubblicizzato.

• Strategia finalizzata al rapporto personale: vengono classificate in questa categoria tutte le iniziative che hanno lo scopo di creare un rapporto di one to one marketing tra l’azienda e il cliente. Tra queste si devono considerare tutti i servizi personalizzati di informazioni, alert e gestioni personalizzate con profilazione dell’utente. Questi servizi possono essere forniti al cliente solo dopo registrazione in un sistema di membership costruendo in tal modo una banca dati di informazioni sul loro conto, e come contropartita forniscono loro l’accesso ad una serie di sevizi esclusivi.
La variabile strategica maggiormente utilizzata per valutare questo tipo di campagna è il numero di visite ripetute, che misura la capacità di un sito di creare un rapporto continuativo con il cliente facendo in modo che egli torni ripetutamente a visitarlo e il numero dei clienti registrati al servizio.

• Strategia finalizzata alle vendite: questa strategia risulta ottima per tutti i siti web che offrono servizi a pagamento per i clienti sia on line che off line. Non è detto, infatti, che l’obiettivo di aumentare le vendite debba essere conseguito tramite l’e-commerce ma sicuramente l’e-commerce deve essere sinergico con la massimizzazione delle vendite off-line. Le variabili strategiche per la valutazione dell’efficacia delle campagne sono il fatturato, il numero di prodotti venduti, il numero di nuovi clienti acquisiti.

• Strategia finalizzata alla diffusione di comunità virtuali: l’obiettivo della strategia è invece quello di creare una comunità virtuale che direttamente o indirettamente possa far riferimento all’immagine o al prodotto dell’azienda. Le comunità virtuali sono comunità di persone che, per motivi professionali, per passioni individuali o per puro divertimento, condividono l’interesse per un determinato argomento, e utilizzano Internet per scambiarsi opinioni, esperienze, scoperte personali, consigli . Nasce così un nuovo modo di considerare il rapporto tra azienda e cliente: questi non è più un soggetto passivo a cui inculcare una determinata convinzione tramite la pubblicità, ma diventa parte attiva, fino ad essere addirittura partner dell’impresa nel processo di progettazione e sviluppo del prodotto. “La misurazione dell’efficacia di iniziative strategiche di questo tipo può essere fatta attraverso la valutazione della numerosità della comunità virtuale legata all’azienda, o considerando la portata qualitativa degli interventi che vengono realizzati; un giudizio completo, comunque, non può che derivare da un’analisi ex post che valuti in modo globale costi e benefici dell’iniziativa”.

La segmentazione

Le prime tecniche di segmentazione, risalenti agli anni ’50, si basavano sulle variabili sociodemografiche (sesso, età, reddito, livello di scolarità, etc.) facilmente reperibili e di facile utilizzo, ma di limitata utilità per un’efficace segmentazione data la naturale interazione reciproca di tali variabili.
Inoltre, la realtà sociale del consumo sempre più complessa richiedeva strumenti più sofisticati e attenti alle dinamiche di acquisto dei consumatori.

In quest’ottica si inseriscono le tecniche di segmentazione psicografica: esse basano l’individuazione dei diversi segmenti sull’analisi delle caratteristiche delle diverse personalità individuali, utilizzando inizialmente i test di personalità , rivelatisi inadatti, per poi passare a strumenti più adeguati, come le scale d’ atteggiamento.

Il primo vero tentativo di psicografia fu quello di Emanuel Demby, che nel 1964 riuscì ad identificare, in una sua ricerca, due categorie di acquirenti di nuovi prodotti: i “creativi” ed i “passivi”, caratterizzati anche da diversi interessi e attività quotidiane, ma visti unicamente in quanto strettamente legati al fenomeno di consumo considerato.
Successivamente, si è cercato di considerare l’individuo appartenente ad un determinato segmento nella sua totalità, in qualsiasi situazione lo si consideri, prendendo in analisi il concetto di “stile di vita”: questo, abbiamo osservato, non è più visto come elemento di “distinzione sociale”, come proponeva Weber, ma come “insieme dei valori, atteggiamenti, opinioni e comportamenti che manifestano l’ unicità della personalità del soggetto nella sua globalità, e di cui il consumo è soltanto una delle tante componenti” .
Il modello teorico utilizzato alla base della maggior parte delle ricerche psicografiche è il cosiddetto VALS (Values and LifeStyles) messo a punto da A. Mitchell sulla base della teoria di Maslow sulle “motivazioni dominanti”; questa prevede una gerarchia di cinque tipi di bisogni basici che spingono l’individuo ad agire, ognuno dei quali si manifesta solo quando sono stati soddisfatti i bisogni collocati ai livelli inferiori.

Nella segmentazione VALS ad ognuno di questi livelli corrisponde un segmento della popolazione degli Stati Uniti: ciò porta all’individuazione di otto stili di vita, distinguendo anche tra due possibili percorsi, “autodiretto” ed “eterodiretto”, per la soddisfazione dei propri bisogni.
Il concetto di stile di vita si è rivelato un efficace mezzo di segmentazione e di costruzione di “mappe socio-culturali” (in Italia la prima ricerca psicografica, ancora oggi utilizzata, è stata la Psicografia Eurisko, condotta da G. Calvi e oggi denominata Sinottica), anche se gli ulteriori mutamenti nella società e nel consumo, che si sono verificati soprattutto tra gli anni ’80 e ’90, hanno in parte reso impossibile il tradizionale ricorso alla segmentazione ed agli stessi stili di vita, come abbiamo accennato nel capitolo precedente.

Un tentativo di seguire il cambiamento sociale in modo più accurato, e a livello globale, è rappresentato dal sistema 3SC (Sistema di Correnti Socio-Culturali e Scenari di Cambiamento) messo a punto da Alain de Vulpian nel 1972 e successivamente adottato da quattordici istituti di ricerca in diverse nazioni, associati nel RISC (Research Institute of Social Change).
Questa ricerca si fonda su una filosofia “evoluzionista”, prendendo in considerazione lo sviluppo verso una sempre più forte modernità socioculturale; essa consente inoltre la comparazione dei risultati con quelli precedentemente osservati (misurando così l’entità del cambiamento avvenuto) tenendo sotto controllo cinque aree principali di cambiamento socioculturale:

Le mentalità, le sensibilità, i valori, le aspirazioni, le motivazioni e i tratti di personalità;

1) I costumi e i modi di vita;
2) Le produzioni culturali;
3) Le strutture sociali informali;
4) I paradigmi, ovvero i principali sistemi di credenze, e le rappresentazioni collettive.

Attraverso il trattamento con tecniche fattoriali dei dati ottenuti da interviste, basate su items riguardanti valori e atteggiamenti, si identificano delle “correnti socioculturali” utilizzabili come indicatori sintetici del cambiamento, nonché come variabili attive di segmentazione.
L’importanza di una tale ricerca è evidente se si considera la crescente internazionalizzazione o globalizzazione dei mercati e delle culture: ciò porta alla costituzione di settori di mercato sempre più omogenei a dispetto delle diversità nazionali, soprattutto per alcune nicchie di consumatori più “evoluti” e più coinvolti nella modernizzazione e nell’innovazione delle tecnologie comunicative che contribuiscono a creare quel “villaggio globale” di cui parla McLuhan; in esso, ad un’omogeneizzazione crescente a livello mondiale, si accompagna la permanenza, o a volte la presa di coscienza, delle subculture locali e personali, dando luogo a stili di vita e di consumo sempre più numerosi e flessibili, dunque meno efficacemente esplicativi di una società in cui il consumo si pone sempre più come un complesso sistema di comunicazione veicolante molteplici significati e messaggi.
Ciò nonostante, la segmentazione svolge un ruolo fondamentale nell’elaborare strategie di marketing adatte ai target individuati. Ogni segmento, infatti, ha i propri bisogni e i suoi diversi schemi di risposta ai differenti marketing mix.
I segmenti più attraenti sono individuati secondo le risorse dell’impresa; i target più interessanti sono quelli che in genere sono più proficui, vale a dire i segmenti più vicini all’impresa, i gruppi di clienti fedeli o di forti consumatori di un particolare prodotto.

Individuare un target riduce gli sprechi di risorse (per esempio il denaro speso in pubblicità di massa) e, infine, può far aumentare le vendite in quanto sono contattati gli acquirenti più adatti.
Con la frammentazione del mercato di massa e la sua divisione in segmenti, e grazie alla possibilità di comunicazioni sempre più mirate offerte dalle nuove tecnologie (si pensi alla pubblicità su Internet), c’è sempre meno bisogno di marketing e comunicazioni di massa.
E’ sempre più importante, anche se difficile, segmentare accuratamente il mercato, individuando i segmenti più proficui.

Idealmente i segmenti ottenuti dovrebbero soddisfare i seguenti criteri:

1) Misurabilità: il segmento si può quantificare? Possono essere identificati i consumatori che vi ricadono?

2) Sostanzialità: quanti consumatori entrano nel segmento? Sono in numero sufficiente per garantire un’attenzione particolare a quel target?

3) Accessibilità: può essere contattato facilmente? Può essere isolato da altri segmenti? Ci sono mass media e canali di distribuzione per accedere a questo segmento?

4) Rilevanza: i benefici offerti dal prodotto devono essere rilevanti per il target o percepiti come tali. E’ perciò fondamentale conoscere il profilo del “consumatore ideale” per indirizzare nel modo giusto i messaggi appropriati attraverso i canali più adatti. Bisogna inoltre tenere in considerazione tutti coloro che rientrano nel processo di decisione d’acquisto, dall’utilizzatore all’acquirente, a eventuali influenzatori.

 

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