martedì 13 luglio 2010

Spesso le aziende mi chiedono se devono essere presenti su Facebook o Twitter, e se sì, cosa devono fare. Altre mi chiedono ma è meglio aprire un corporate blog o una pagina su Facebook?

Ultimamente c’è stata una vera rincorsa da parte di molte aziende e attività commerciali ad aprire gruppi e pagine su FB, proprio per il fatto che FB è gratis, per poi chiedere ossessivamente a tutti (amici, clienti, conoscenti) di diventare fan; quasi che avere il massimo numero di fan o amici equivalesse a essere più importanti o a incrementare il business.

Quando l’approccio è fine a sé stesso, la sua efficacia è molto ridotta, tanto più Facebook che si diverte a cambiare le carte in tavola molto spesso: è di poco tempo fa la modifica dei fan in semplici “I like”(=mi piace).

Il punto è che i social network non nascono per scopi commerciali e se si entra con il modo e il linguaggio sbagliato, non solo non si ottengono risultati, ma si rischia di essere bannati. Senza parlare dell’effetto boomerang di coloro che sono bersagliati da messaggi privati e inviti ad eventi: un vero bombardamento di spam indesiderato.
La verità è che questi siti sono nati per far divertire le persone: per farle incontrare, conoscere, dialogare, scambiare foto, video e link. Se un’azienda riesce ad entrare in questa ottica e magari far divertire i suoi (potenziali) clienti ecco che le possibilità di ritorni aumentano. Non è un caso che creare applicazioni sia una delle forme più intelligenti di promozione.

Se usato intelligentemente Facebook ha un’enorme potenza comunicativa: se ho un gruppo di reali appassionati al mio settore/articolo/argomento, posso con un click inviargli comunicazioni e news con un tasso di risposta molto forte.
Ma d’altra parte non dobbiamo dimenticarci che oltre alla sfera ludica, Fb ha un altro limite: la sua mutevolezza nel tempo. Tutto ciò che posto, pubblico, commento, linko oggi, domani sarà già sparito nel flusso delle conversazioni.
Questa è l’ obiezione che pongo a chi - organizzando eventi o pubblicando news spesso - non investe anche in altre forme di visibilità online, vedi ad esempio un blog.

E’ vero che oggi è più facile che ci siano commenti e interattività su Facebook rispetto a un blog, ma il blog mi permette di mantenere traccia di quello che, come azienda, faccio.

Questo punto è molto complesso, anche perché nel frattempo si è aggiunto pure Twitter! Dove la tempestività e potenza di fuoco dei messaggi va di pari passo a una estrema volatilità delle twittate! (tweet significa infatti cinguettio).

Mi piacerebbe lanciare una discussione su questo argomento!!!

giovedì 10 giugno 2010

Poco tempo fa il team di Google Analytics ha annunciato, tramite un post sul blog ufficiale, una novità di rilevante importanza.
Google sta infatti testando un plugin per browser che permetterà agli utenti di decidere se essere tracciati o meno sui siti che utilizzano Google Analytics. Il plugin è ancora in fase di test e dovrebbe essere rilasciato nelle prossime settimane.
Con questo plugin Google vuole tutelarsi dai problemi di privacy. Ricordiamo infatti che qualche mese fa le autorità tedesche avevano dichiarato illegale l’utilizzo di Google Analytics in Germania a causa del mancato consenso preventivo da parte degli utenti a fornire informazioni ritenute sensibili.
Google Analytics è uno dei software di statistiche più utilizzati al mondo, quindi cosa comporterà?
La diffusione dell’utilizzo di questa possibilità di “opt-out” potrebbe portare le aziende ad avere dei dati statistici meno precisi in merito ai visitatori del proprio sito web.
Google, infatti, non ha ancora reso noto per quali browser sarà reso disponibile il plug-in e non ha chiarito se il plugin verrà integrato di default nei principali browser.
Molto probabilmente alcuni utenti utilizzeranno il plugin per non essere tracciati, ma la maggior parte degli utenti non lo farà. La web analytics è sopravvissuta ai problemi di tracciamento dovuti alla disattivazione di cookie e javascript nei browser e resisterà anche a questo plugin.
Inoltre Google Analytics offre una possibilità di gestione della privacy. Ciò potrebbe portare ad una sua diffusione ancora maggiore.

giovedì 27 maggio 2010

Come capire e identificare il valore della popolarità e quindi del successo di una marca sul Web? E’ sufficiente conoscere il Google PageRank del sito ufficiale del brand e il numero dei suoi fan su Facebook?

Proviamo a rispondere a queste domande individuando un insieme di indicatori utili ad analizzare il posizionamento e la popolarità dei brand nella Rete.
Il successo di un brand online è funzione sia della reputazione che della popolarità: in questo articolo ci occupiamo della popolarità.
Come dicevamo inizialmente, i metodi che utilizzano il Google PageRank come unico indicatore della popolarità sono fortemente limitati: a dirlo non siamo noi, ma Google stessa! Infatti la nostra ricerca prende spunto anche dall’articolo Google e l’abbandono del PageRank che, riportando l’opinione del Director of Research di Google, mette in discussione il valore assoluto del PageRank per quantificare il successo di un sito web.
Abbiamo scelto gli indicatori maggiormente orientati all’analisi di siti web di brand, attribuendo a ciascuno di essi un peso, a seconda della loro importanza. Gli indicatori considerati sono:
1. Google PageRank: valore numerico compreso tra 0 e 10 che Google assegna ad ogni pagina web indicizzata sulla base della sua popolarità.
2. Wikipedia: numero di collegamenti esterni presenti su Wikipedia alle pagine del sito ufficiale di un brand.
3. Facebook: numero di iscritti alla pagina fan ufficiale del brand.
4. Link in entrata: numero di link che rimandano al sito ufficiale del brand.
5. Twitter: numero di follower del brand.
6. Delicious: numero dei segnalibri Delicious in cui è presente uno dei siti del brand.
7. YouTube: numero di iscritti al canale ufficiale del brand.
8. Alexa: valore numerico che indica il ranking del sito, calcolato sulla base del numero di utenti che lo visitano e del numero di pagine viste.
9. Google Statistiche di ricerca: numero di volte in cui un brand è stato ricercato su Google nel corso degli ultimi 90 giorni.

Questi valori che abbiamo elencato sono in grado di fornire un indice complessivo della popolarità sul Web di un brand e può essere esteso a qualsiasi settore, merceologico o meno. Per poter determinare il successo online, che è funzione sia della popolarità che della reputazione, in futuro ci occuperemo di reputazione e di Social Media Monitoring, completando l’analisi quantitativa con una qualitativa, in modo da analizzare non solo “quanto” un marchio sia presente sul web, ma anche “come” sia presente. Nestlé ad esempio è “popolarissima” su Facebook, ma andando ad osservare la sua pagina fan ufficiale un po’ più da vicino ci si accorge che alcuni dei commenti presenti non sono per nulla positivi. Da adesso in poi, quindi, il nostro progetto si concentrerà sugli aspetti qualitativi della presenza online dei brand, e potrebbe presto tradursi in un nuovo post.

venerdì 16 aprile 2010

Hai mai provato a cercare su Google suggerimenti su come scrivere una headline che funziona? Io l’ho fatto, così per curiosità e ho trovato ben 88.000 risultati. Solo in italiano. Cosa ti pare?
Pensa a ciò che avviene quando entri in un negozio o passeggi per le vie del centro: qualcosa cattura la tua attenzione, approfondisci, desideri ed acquisti. Sui siti web avvengono le stesse cose nel medesimo ordine, sia che si tratti dell’acquisto di un libro che della prenotazione di una camera.
Pensa all’impatto che una buona headline può avere su di te. Quale libro sceglieresti tra: “Consigli Utili Per Sviluppare La Muscolatura” o “Scolpisci Il Tuo Corpo Grazie Ai Segreti Di Un Ex Bodybuilder”?
Se sei come me, sei attratto più dal secondo titolo, l’headline è l’unica cosa che conta nella vendita, non importa quando informativo sia il contenuto, una buona headline è il passo fondamentale per una pagina vendita da centinaia di euro.
Al giorno d’oggi che ci sono centinaia di blog che nascono ogni giorno, la competizione si fa sempre più spietata, non importa chi sia il più acculturato, l’importante è riuscire a portare traffico e la spunta quello che riesce a strutturare le headline migliori per attrarre i visitatori.
Le migliori headline che ho visto usavano dei trucchi persuasivi per invogliare un potenziale utente a compiere l’azione di acquistare il prodotto, ecco le strategie che dovete assolutamente applicare alla vostra headline:
• Usa l Verbo “Come Fare” : I navigatori vanno sempre di fretta di questi giorni, se cercano una determinata cosa online, la vaglino in fretta e furia, il “come fare” è un qualcosa che fa capire all’utente che si va direttamente al punto.
• Usa I Numeri: E’ stato testato che le persone sono eccitare dai numeri, danno una chiara spiegazione delle cose che riusciranno ad avere, e sono di più veloce lettura, il contenuto e sovrano, ma quello veloce e senza fronzoli ancora di più.
• Sii Specifico: Meglio non far rimanere all’utente nessuna perplessità dopo aver letto la headline, è buono essere esplicativi nella propria headline, ma meglio andare diritti al punto e far capire al potenziale buyer cosa riceverà.
• Dai Benefici: Perché una persone dovrebbe leggere il contenuto che proponi se non glie è di nessuna utilità? Usa solo informazioni che possono dare benefici ai tuoi clienti, nulla di più.
• Tieni A Mente Le Tue Keywords: Non sacrificare il posizionamento organico nei motori di ricerca per una headline carina. Cerca di inserire nell’headline keywords che siano attinenti con la tua nicchia.
• Inizia Con Un Verbo Magnetico: Questo è il momento di incuriosire il lettore e catturare la tua attenzione, il tipo di verbi che si usano, possono determinare la riuscita o il fallimento dell’headline, tipo “Scopri” è molto più efficace di “vedi” e “Segreto” più efficace di “informazione”.
• Fai Una Domanda: Questa è un’atra tattica per intrigare il lettore, cosi li spingi a trovare una risposta nella tua sales copy.

Attenzione però dipende sempre da chi è il Target. In qualsiasi forma di comunicazione l'attenzione e il messaggio sono solo e soltanto per il ricevente/utente/internauta/lettore.
Troppo facile poi sostenere che “la pubblicità online non funziona”. Per scuotere gli utenti, la condizione indispensabile, è di avere un titolo in grado di suscitare curiosità e riscuotere attenzione.
Sul web è bene scrivere titoli diversi a seconda del contesto, ci sono headline che si addicono alla landing page ma non funzionano sui siti di social news, e titoli indicati per gli annunci adwords, ma poco consigliabili per i motori di ricerca.
Sulla pagina web le headline dovrebbero sottolineare il reale vantaggio che il contenuto, o il prodotto descritto nella pagina, rappresenta per l’utente. E’ bene che il focus sia posto sui desideri degli utenti, più che sui bisogni. Ad esempio gli utenti hanno bisogno di cellulari per chiamare, ma desiderano (e comprano) cellulari molto più complessi.
Sui siti di Social News (OkNotizie, Segnalo …) la nostra headline sarà esposta a migliaia di utenti ma per un periodo molto breve. Dovrai scrivere una headline che suggerisca immediata utilità e una certa urgenza. Sugli annunci Adwords avrai la necessità di avere la key nel titolo, per alzare il Quality Score e quindi per abbassare i costi della campagna PPC. La key nel titolo farà anche in modo che questo esca in grassetto, aumentando in questo modo il CTR. Nel tag title è bene mettere le keywords a sinistra, per motivi legati alla SEO (Ottimizzazione per i Motori di Ricerca), senza rinunciare a compiere una frase. Se non vuoi rinunciare al brand ponilo alla fine del title, magari separato da un trattino.
Penso che vi sarà utile anche considerare i consigli che ha dato uno dei padri della pubblicità moderna, David Ogilvy. Questi consigli David Ogilvy li ha dati quando Internet non c’era ancora, SEO era una sigla sconosciuta e il marketing era solo marketing, senza web davanti. Ma sono a mio parere ancora attualissimi.
Eccoli, per tutti quelli che amano il lavoro del copywriter e lo fanno con passione e impegno sincero. Sono cinque piccole domande facili facili la cui risposta non sempre è scontata:
questa headline che sto leggendo o che ho scritto
ha attirato la mia attenzione appena l’ho vista?
Avrei voluto averla pensata io?
E’ unica?
E’ perfettamente in strategia?
Potrebbe essere usata per altri trent’anni?
Se riesci a dare una risposta a questa ultima domanda, sarai pronto ad entrare nella storia della pubblicità e della comunicazione.

sabato 10 aprile 2010

Ecco ancora un po’ di teoria gente…prometto che farò un po’ di pausa!!!:)
La maggior parte delle strategie relative alla vendita di un prodotto, riguardano il marketing (packaging, prezzo, target etc). Per la semiotica ci si chiede: sulla base di quali criteri e di quali assiologie i beni pubblicizzati sono messi in valore? FLOCH 1992, ha proposto una classificazione di valorizzazioni pubblicitarie a seconda che l’assiologia pubblicitaria sia costruita partendo da:
◊ VALORIZZAZIONE PRATICA: utilità dell’oggetto
◊ VALORIZZAZIONE UTOPICA: senso sociale
◊ VALORIZZAZIONE LUDICA: capacità di attrarre la simpatia e il divertimento del lettore
◊ VALORIZZAZIONE CRITICA: convenienza economica.
Il carattere oppositivo del senso comporta il fatto che la dimensione minima per un’analisi semiotica non sia un’unità testuale isolata, ma piuttosto una coppia di unità. Tale opposizione di 2 due significati diverso dello stesso ambito (colore-colore e non colore-sapore) si chiama categoria semantica i 2 requisiti sono: 1) che i 2 termini appartengano allo stesso piano semiotico e) che i 2 termini siano disgiunti. Per ricostruire le categorie semantiche pertinenti di un testo, il semiologo identificherà le principali isotopie (diversi modi per dire la stessa cosa) e studierà i rapporti tra loro, in modo da individuare i concetti che si oppongono. Lo schema del quadrato semiotico prevede:
- Riga orizzontale in alto s1 s2: opposizione o contrarietà es. bianco/nero.
- Righe diagonali: contraddizione es. bianco e non bianco, nero e non nero, il rapporto dei termini che si fronteggiano nella diagonale deve essere di esclusione.
- Riga orizzontale in basso Non s1 e non s2: subcontrari es. non bianco e non nero (hanno una zona di sovrapposizione es. grigio).
- Righe verticali: deissi o implicazione: sono legati da un’indicazione esemplare bianco è per forza non nero.
Occorre distinguere:
_ VALORI D’USO: es. valorizzazione pratica. Non d’uso valorizzazione ludica.
_ VALORI DI BASE: valorizzazione utopica. Non di base valorizzazione critica.
QUADRATO DI FLOCH:
Valorizzazione pratica Valorizzazione utopica o mitica

Valorizzazione critica Valorizzazione ludica
Vi sono altri schemi SEMPRINI e FERRARO (oppone oggettivo/soggettivo – relativo/assoluto).
La ripetizione del messaggio è comune a tutte le strategie pubblicitarie (saghe). BARTHES distingue 2 modi per ottenere la persuasione:
_ COMMOZIONE: manipolazione dei sentimenti altrui.
_ CONVINCIMENTO: far leva su argomentazioni ragionali.
Occorre far riferimento alla TEORIA DELLA NARRAZIONE che prevede uno schema di azione tipico:
1. MANIPOLAZIONE: qualcuno viene indotto a fare qualcosa
2. COMPETENZA: che può tradursi in oggetti che danno potere o sapere.
3. PERFORMANZA: in cui si realizza il compito previsto
4. SANZIONE: fase del giudizio.
La strategia pubblicitaria che parte dal riconoscimento del valore dell’enunciatore richiama l’attenzione sull’avvenuta acquisizione di competenza, quella che sfrutta i valori acquisiti dai destinatari li rinvia ad una sanzione. La pubblicità ricorre alla retorica.

venerdì 9 aprile 2010

La pubblicità è uno dei principali motori dell’economia e un potere che condiziona tutti i mezzi di comunicazione di massa, ma, ormai già da anni, anche la comunicazione mirata. Una corrente artistica dura anni, uno spot al massimo qualche settimana. La pubblicità si consuma e spesso si ricorre a saghe (Gavazza, tim). La semiotica analizza in profondità il testo pubblicitario, nei suoi diversi aspetti. La semiotica coglie le strutture di senso. In questo senso permette di cogliere i grandi mutamenti della vita sociale (es ruolo della donna).
La pubblicità usa i testi (immagini, foto, video etc). Testo rimanda al concetto di intreccio (textus) e testimonianza (tesis). ECO afferma che il testo è una macchina pigra che ha bisogno del lettore per funzionare. E’ evidente la complessità e la semiotica serve proprio per analizzare la struttura dei testi a livello profondo. La pubblicità usando i testi, ricorre ad un’attività di mediazione perché al contrario delle altre vendite, usa i mezzi di comunicazione di massa. Nella relazione messaggio-detinatario, i testi pubblicitari possono essere:
- Più o meno mirati ad un target preciso.
- Più o meno intrusivi
- Più o meno locali
- Più o meno evitati dal destinatario
- Più o meno interattivi
Per quanto riguarda l’organizzazione interna:
- Iconici
- Verbali
- Narrativi
- Ludici
- Pratici
- Utopici
Il testo pubblicitario è diverso a seconda del mezzo che sfrutta (carattere parassitario o interattivo) tv, affissione, radio, cinema, web, interfacce, touch screen, etc. Il pubblico è sempre più selettivo e occorre gratificarlo, visto che la pubblicità volge al suo declino (ricerca Univ di Pavia solo il 3% ama la pubblicità). Si ricorre a delle gratificazioni (telefonate gratuite o prova di un programma per un mese).
Il discorso pubblicitario si distingue per il suo carattere strategico in quanto finalizzato ad altro. Vi sono vari discorsi (politico, sportivo, artistico etc). Il rapporto con i consumatori è asimmetrico: 1 a molti e obiettivi a breve (pubblico) e a lungo (pubblicità). E’ perlocutivo svolge un’azione in vista di altri fini, ma in maniera esplicita: ci mostra un filmato divertente per vendere un sapone. Questa strategia à legata a:
* VALORIZZAZIONE POSITIVA:
* TEMA: consumismo!
Per valorizzazione la semiotica intende il funzionamento di un testo che, attraverso opportune mediazioni semantiche, congiunga un certo oggetto con l’opposizione timica (particolare elementare che alterna bene al male). La pubblicità sottolinea il valore aggiunto che differenza un bene in contrapposizione ad altri. Una delle funzioni economiche della pubblicità, in quanto valorizzazione del consumo, è quella di provocare artificialmente l’usura semiotica delle merci già acquistate e consumate solo in parte. Il VALORE SEMIOTICO: relazione orizzontale che lega e oppone un segno agli altri che si trovano nello stesso ambito, definendo la sua funzione comunicativa per opposizione rispetto alle altre possibili unità dello stesso sistema semiotico.

...to be continued...

giovedì 1 aprile 2010


DiversoCMI augura a tutti visitatori, lettori e sostenitori una Meravigliosa Pasqua.






Inno alla vita (Madre Teresa di Calcutta)

La vita è bellezza, ammirala.
La vita è un’opportunità, coglila.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne una realtà.
La vita è una sfida, affrontala.
La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, abbine cura.
La vita è una ricchezza, conservala.
La vita è amore, donala.
La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.
La vita è tristezza, superala.
La vita è un inno, cantalo.
La vita è una lotta, accettala.
La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è felicità, meritala.
La vita è la vita, difendila.

DiversoCMI

martedì 16 marzo 2010

La Link Popularity

Si chiama Link Popularity il numero di link in-bound (o back-link) presenti su altri siti verso quello in oggetto.
La popolarità da link (link popularity in inglese) è una misura dell'affidabilità dei contenuti di un sito web, che influisce notevolmente sulla visibilità online. Oggi i motori di ricerca premiano l'affidabilità di un sito innalzandolo ai primi posti nelle pagine di risposta.
Per i motori, infatti, il fatto che vi siano molti riferimenti ad un sito denota la sua importanza. Un alto numero di link fa ritenere che molti webmaster abbiano trovato interessante il sito e lo abbiano indicato ai propri utenti.
La popolarità da link è solo uno dei tanti parametri presi in considerazione da Google per decidere la posizione di una pagina. Pertanto una pagina con elevata popolarità non ottiene automaticamente una posizione migliore rispetto ad una pagina con popolarità più bassa.
Il PageRank utilizza la link popularity come fattore importante per il posizionamento di un sito.
La LP (spesso è semplicemente chiamata così) è uno dei principali parametri per un buon posizionamento per la maggior parte dei motori (ininfluente, invece, per le directory).

Importanza della Link Popularity del tuo sito web
Non soltanto per i motori di ricerca, ma per il sito stesso, è inutile averlo se nessuno sa che esiste. Aumentare la link popularity è uno dei compiti più difficili ma anche più importanti. I modi sono tantissimi, le idee infinite e diventano sempre più ogni giorno che passa.
Usato come fattore fondamentale nel PageRank di Google, la link popularity è l'arma più potente di tutti i motori di ricerca nell'arsenale di ranking dei siti indicizzati. Essenzialmente più siti hanno un link al tuo più i motori ti considerano importante e più possibilità hai di competere ai posti in testa ai risultati, e le tecniche di ottimizzazione on-page non garantiranno un posizionamento significante se non aiutati da un buon link popularity.
L'obiettivo dei motori di ricerca è quello di fornire ai loro utenti quei documenti che loro veramente cercano. E come fanno a distinguere tra la massa di pagine web disponibili on-line? Cercheranno quelle che la maggior parte dei siti con argomenti correlati propongono tramite i loro link. Il posizionamento di un sito in base alla sua link popularity neutralizza gli effetti negativi prodotti dallo spam e dalla manipolazione dei fattori on-page.
La popolarità di un sito è il numero totale dei altri siti che hanno un link verso di lui. Ma questo valore è solo metà di quello che conta. La link analysis, o analisi della link popularity, è il numero totale di inbound link qualitativi. Va quindi oltre al numero dei link, non è il totale assoluto che conta ma la loro qualità.

Aumento della LP

Realizzato il sito, è opportuno, però, che l’aumento della Link Popularity non sia troppo repentino. Per gli algoritmi di indicizzazione più accorti, infatti, un aumento troppo veloce sarebbe chiaro indice di ottimizzazione in corso. L’aumento, invece, deve essere graduale nel tempo e possibilmente costante.
Alcune considerazioni:
• anche se ogni link ha valore, quelli da pagine a tema sono di maggior contributo;
• link da siti con alto Page Rank, hanno più valore;
• link da pagine con buon contenuto di testo, sono preferibili;
• i link non devono provenire da siti penalizzati.
In rete sono facilmente identificabili con una ricerca, numerosi tool che consentono il conteggio dei link presenti su web.
Se il parametro in sé ha un significato, va considerato che la concordanza di temi tra due siti che si indicano aggiunge molto valore al link. In generale, in termini di costo/prestazioni, si ritiene di gran lunga preferibile avere cinque link da siti a tema, che 50 da siti completamente diversi dal nostro.
Troppi link provenienti da altrettanti siti con argomento diverso dal nostro, ma concorde tra loro, può spostare la classificazione del nostro sito, nella matrice che i motori di ricerca memorizzano.
Allo stesso modo, se tutti i link provengono da siti a tema, si potrebbe pensare ad una certa “forzatura”. Il motore di ricerca, infatti, dà maggior credito ad una crescita spontanea e naturale della link popularity.
Per il motivo sopra indicato, la crescita improvvisa della link popularity, soprattutto da valori bassi e con sito nuovo, può essere inteso come intensificazione dell’attività di posizionamento, cosa estremamente dannosa, ad oggi.
Il modo migliore per aumentare la link popularity in modo naturale è frequentare la blogosfera, partecipare ai forum, vivere il social networking e soprattutto fare un sito con risorse ed informazioni utili per i visitatori.
Eventi, manifestazioni, giochi a premio, documenti, manuali, schermi, ecc,
sono tutti sistemi per far aumentare in modo spontaneo la link popularity.

Quantità o qualità dei link

Con un sistema di analisi dei link è più facile filtrare gli spammer che attivano una moltitudine di pagine nei siti che offrono hosting gratuito e poi li linkano al loro sito principale. Nell'ultimo tempo i motori di ricerca non danno più valore alle pagine ospitate in aree gratuite. Cambiando quindi il valore della quantità con quella della qualità dei link, il risultato finale è sostanzialmente ponderato.
Non tutti i link hanno la stessa importanza. E' importante avere link da siti popolari con i stessi termini di ricerca. Pochi link da siti popolari del tuo settore valgono di più di molti link da siti meno popolari o siti che non trattano argomenti rilevanti per le keyword che ti interessano.
Se vuoi avere un buon posizionamento nei motori di ricerca che usano algoritmi di link analysis dovrai essere collegato con altri siti di buona reputazione nel tuo settore. Ovviamente dovrai tenere conto anche di tutte le tecniche di ottimizzazione on-page, usare le chiavi che stai mirando e avere contenuti rilevanti a queste parole.

domenica 28 febbraio 2010

Tutti o quasi conoscono Facebook, ma in pochi sanno come fare business usando Facebook. Come puoi utilizzare il social network più diffuso per promuovere il tuo sito o la tua attività, per incrementare i tuoi guadagni o il traffico verso il tuo blog, accrescere il numero di fan della tua community online?
Come utilizzare Facebook per fare business? Premesso che Facebook non è per tutti e che è comunque uno strumento complementare ad altri nella comunicazione e sopratutto nella relazione con il web sociale, Facebook mette a disposizione delle aziende diversi strumenti per entrare in relazione con la sua community, che in Italia vanta oltre 12 milioni di utenti.
In particolare il punto di partenza è il profilo pubblico, detto anche pagina, che è un po' l'equivalente del profilo personale per tutti i soggetti non personali. L'errore assolutamente da evitare è quello di aprire un profilo personale e intestarlo all'azienda, o all'attività economica, o all'associazione.
Cosa che tuttora succede abbastanza frequentemente ma che è una violazione dei termini del servizio di Facebook per cui può comportare la chiusura del profilo personale. Quindi dal profilo pubblico poi si possono fare tante altre cose, ci sono i gruppi, c'è la possibilità di fare campagne pubblicitarie...
Per chi ha un sito o un blog, Facebook può portare dei benefici sotto vari punti di vista.
Uno è quello della moltiplicazione della diffusione dei propri contenuti, perché ci sono utenti su Facebook che conoscono poco il mondo dei blog, o comunque il web in generale, perché magari hanno cominciato a navigare proprio da Facebook, quindi è un modo per entrare in relazione con un pubblico che si va ad aggiungere con quello che il sito o il blog ha già.
In più può essere un importante canale di ritorno per avere feedback, commenti e aumentare un po' la conversazione intorno al proprio sito o blog, che può avvalersi anche di un altro strumento di Facebook che è Facebook Connect, che permette di autenticarsi per commentare sul blog per esempio utilizzando le credenziali di Facebook, quindi senza doversi registrare una seconda volta.
Qual è il segreto per aumentare i fan sul proprio profilo pubblico? Quello di aumentare i fan è un obiettivo che chi ha un profilo pubblico dovrebbe porsi.
Però oltre a questo è più importante creare un coinvolgimento con i fan del proprio profilo e far sì che, tanti o pochi che siano, siano stimolati e invogliati spontaneamente a condividere le cose che leggono sul profilo pubblico, a pubblicare sul proprio profilo e farle conoscere ad altri amici.
In ogni caso all'inizio quando si apre un profilo pubblico che ha uno scopo in qualche modo commerciale o professionale, ci si può avvalere della parte pubblicitaria di Facebook, quindi aprire una piccola campagna pubblicitaria, che costa veramente pochi dollari, indirizzarla su un target molto profilato; perché Facebook permette di fare pubblicità utilizzando la profilazione degli utenti, quindi io posso far comparire il mio banner che invita gli utenti di Facebook a diventare fan del mio profilo, per una categoria ben precisa, posso ad esempio prendere i maschi, che abitano a Milano, che sono laureati e che hanno da trenta a quarant'anni.
Questa profilazione è possibile con Facebook e non è possibile con nessun altro strumento, quindi nell'ottica di creare una massa critica per il profilo pubblico può essere una leva da utilizzare.
Come si può comparare la pubblicità su Facebook con un altro canale molto diffuso che è quello di Google Adsense? Dal mio punto di vista una è la differenza sostanziale, ed è quella per cui Adsense contestualizza la pubblicità in base al testo della pagina dove va a posizionarsi.
Nel caso di Facebook invece l'annuncio va nelle pagine del profilo degli utenti che io ho selezionato. Quindi se su Google io compro delle parole chiave, su Facebook in realtà posso fare una campagna sia Cpm, quindi comprando impression, sia pay per click, quindi pagando soltanto i click degli utenti sul mio banner, identificando un profilo ben definito di utente: per sesso, posizione geografica, età, titolo di studio, orientamento sessuale e a questo posso aggiungere anche delle parole chiave che sono quelle che l'utente usa per descrivere il proprio profilo.
Quindi ad esempio se voglio colpire particolarmente gli utenti interessati alla toscana, posso aggiungere "toscana" o altre parole chiave relative nel mio annuncio e quindi far sì che il mio annuncio compaia soltanto con quegli utenti che hanno dichiarato di essere interessati alla toscana tra i loro interessi personali.

Quali contenuti pubblicare sul profilo pubblico di Facebook? Ci sono due scuole di pensiero. Una di quelli pigri e che hanno poche risorse, che è quella di utilizzare gli automatismi che permettono di pubblicare automaticamente contenuti presi ad esempio da un feed rss. Quindi io posso attraverso il feed rss del mio blog aggiornare automaticamente il mio profilo pubblico su Facebook, ogni volta che scrivo un nuovo articolo. Questo ovviamente è un modo per popolare di contenuti la pagina ma dà poco valore in termini di relazione.
Utilizzare sicuramente tutti contenuti che possono essere stati pubblicati altrove e che hanno un valore per chi può seguirci e quindi può identificarci in Facebook per le cose che facciamo, ma allo stesso tempo ha molto valore a mio avviso di utilizzare anche la possibilità data da Facebook di aggiungere manualmente dei link da segnalare.
Link che possono anche venire da altri siti, che magari si rifanno agli stessi argomenti che trattiamo nel nostro blog e quindi nella nostra pagina su Facebook, perché l'obiettivo che dovrebbe avere chi gestisce la pagina, e chi gestisce il blog normalmente è quello di dare valore, valore che non necessariamente si traduce nella pubblicazione di contenuti, ma anche nella segnalazione di contenuti prodotti da altri.

domenica 21 febbraio 2010

Il Posizionamento

Il termine “posizionamento” è stato introdotto nella corrente terminologia del marketing nel 1973, quando Al Ries e Jack Trout scrissero una serie di articoli intitolata “The Positioning Era” per la rivista Advertising Age. Il concetto principale su cui si basa il posizionamento è che, in un mercato altamente competitivo e maturo in cui “inventare” nuovi prodotti è praticamente impossibile, la nuova sfida è trovare una “posizione”, un“buco” nel mercato, o meglio nella mente del consumatore.
Secondo i due autori in una società “overcommunicated”, ridondante di messaggi come la nostra, l’unico modo di far arrivare, ed accettare, il proprio prodotto è quello di focalizzarsi su un preciso target a cui inviare un messaggio “ipersemplificato”, duraturo e soprattutto capace di adeguarsi e collegarsi alle esistenti esigenze delle persone:

“The basic approach of positioning is not to create something new and different, but to manipulate what’s already up there in the mind;to retie the connections that already exist”.

Tutto ciò non può essere fatto solo dalla pubblicità , che come affermano Ries e Trout, “è solo la punta dell’iceberg”, bensì richiede un processo più lungo e complesso: il posizionamento, appunto.
E l’unico modo per raggiungere il miglior posizionamento, ed un successo assicurato, è, per i due autori, arrivare per primi ad occupare “quella” posizione nella mente del consumatore.
Se negli anni ’50 predominava la ”era del prodotto” e la pubblicità ne doveva evidenziare le caratteristiche, la USP (Unique Selling Proposition), e, successivamente, nella “era dell’immagine”, al centro della comunicazione trovavamo la “brand image”, più importante delle caratteristiche stesse del prodotto, siamo adesso nella “era del positioning”, in cui l’impresa deve “creare una posizione nella mente del pubblico, una posizione che prende in considerazione non solo forze e debolezze dell’impresa stessa, ma anche quelle dei concorrenti”.

Il posizionamento, dunque, è l’elemento più importante e caratterizzante che, elaborato dalla strategia di marketing e di comunicazione, deve essere fatto proprio e trasmesso nella maniera più adeguata dalla pubblicità e dall’intero flusso di messaggi veicolato dal prodotto stesso.
E’ quindi, il posizionamento, un’area di assoluta competenza dell’impresa che, pur avvalendosi di agenzie o società di consulenza, deve sentire come perfettamente rispondente ai propri valori la scelta di posizionamento effettuata, su cui deve convergere il pieno consenso dell’intera organizzazione: solo così si riuscirà a trasmettere un’immagine precisa, coerente e costante. La costanza del posizionamento, infatti, è un fattore fondamentale per il successo, mentre cambiamenti frequenti della rappresentazione del prodotto o della marca possono essere altamente controproducenti, favorendo la percezione di un’identità confusa e volubile, dunque inaffidabile.

Per lo stesso motivo, qualora si decida di riposizionare il prodotto, sarà d’obbligo tenere presenti sia i posizionamenti pregressi che potranno essere migliorati, attualizzati, leggermente modificati, ma mai del tutto abbandonati, sia lo scenario dei posizionamenti della concorrenza: è infatti molto difficile occupare posizioni già presidiate da altri; si può riuscire al massimo a raggiungere una posizione di “me-too”, in cui è opportuno cercare di differenziarsi in qualche elemento del posizionamento costruendosi una propria identità ed un proprio spazio nell’ambito dell’universo simbolico del prodotto.

Da un punto di vista “tecnico” il posizionamento, come suggerisce Fabris, comporta due operazioni distinte:

1) L’individuazione dei target a cui rivolgersi, attraverso l’utilizzo di una mappa socioculturale, per determinare le possibilità di posizionamento piu adeguate.

2) La rappresentazione mentale della marca, definendo gli attributi e i significati caratterizzanti il prodotto; secondo la definizione di Fabris, infatti “posizionare significa attribuire alla marca delle caratteristiche uniche, indistinguibili, facilmente riconoscibili, persistenti nel tempo, rilevanti per il consumatore”. E’ necessario, cioè, dotare le marca, e il prodotto, di una vera e propria personalità, caratterizzata a livello simbolico da segni incisivi e precisi che ne ripropongano quelle differenziazioni che, a livello materiale, sono ormai sempre più difficili da trovare.

Un posizionamento forte, che riesca a conferire alla marca delle caratteristiche uniche e realmente distintive, permette di occupare una “posizione” difficilmente espugnabile dai competitors e duratura: il posizionamento ideale, infatti, può resistere per anni, basandosi su una personalità forte e riconoscibile per i consumatori, ma anche flessibile, riuscendo a rimanere al passo con i tempi attraverso un costante “upgrading” in cui, pur restando stabili i significati alla base dell’ identità, i significanti si adeguano alle nuove modalità comunicative in modo agile e sintetico.

Il retromarketing tribale

Sempre in ambito di marketing tribale, vi sono una serie di strategie, detti di retromarketing tribale, particolarmente incentrate sul concetto di temporalità e di autenticità.
In maniera completamente opposta al marketing orientato all’innovazione, il retromarketing tribale cerca addirittura di dissimulare i cambiamenti innovativi per cercare di diminuire il frustrante senso di sradicamento dell’uomo contemporaneo.
Come appena detto, l’accento in questo caso è posto sui concetti di autenticità e di arcaismo, tanto cari a certe tribù di consumatori, per accentuare i quali, il marketing si sforza di recuperare i dettagli significativi che recuperano un’altra epoca, perfezionando ed adattando alla nostra epoca prodotti e marchi che in origine sono stati veri e propri cult per i consumatori, cercando di conservare la capacità di costruire, sviluppare e mantenere il legame con persone e situazioni di un’altra epoca (pensiamo, ad esempio alla nuova Vespa, alla serie vintage dei jeans Levi’s o al Nuovo Maggiolino della Volkswagen).

Il marketing tribale

[…] con il passaggio dall’epoca moderna all’epoca “post-moderna”, nel comportamento di molti consumatori, si è assistito a un seppur parziale spostamento di interesse dal prodotto in sé per sé, ai legami ed alle identità sociali che i beni di consumo generano.
Molti sono stati i sociologi (ad esempio, Michel Maffessoli e Francesco Morace) che hanno messo in risalto come oggi, allo “sradicamento moderno”, in cui l’individuo è rimasto solo, libero e in balia di valori quali quelli della libertà, dell’innovazione e della globalizzazione, si accompagna, di contro, una sorta di “ri-radicamento post-moderno”, in cui il soggetto fa parte di una comunità,
“[…]condensazione istantanea, fragile sì, ma al tempo stesso oggetto di un forte investimento emozionale.”(Maffessoli, M., 2004, p.127)
Il legame che tiene in vita queste comunità ha fatto nascere nuovi valori che si oppongono a quelli dell’individualismo sfrenato: essi sono quelli dell’autenticità, della vicinanza e della localizzazione.
Insomma, dopo i primi quindici anni dalla nascita del concetto di post-modernità, in cui, tra le pagine dei sociologi, l’individuo ha fatto da protagonista indiscusso ed il contratto sociale ha soppiantato l’idea di comunità, negli anni ’90 alcuni sociologi hanno incominciato a parlare della comparsa di alcuni tentativi di ri-aggregazione sociale:
[..]
Ma queste comunità, pur avendo delle caratteristiche che le avvicinano ai raggruppamenti pre-moderni, non coincidono con essi; le cosiddette “tribù postmoderne” si vanno comunque ad inserire nell’ambito della società contemporanea, in cui il consumismo e diventato il motore della costruzione identitaria dell’individuo occidentale.
In tale nuovo contesto, il concetto di tribù cambia notevolmente. Non si tratta più di comunità legate dall’origine comune, né dalla religione, né da uno comune scopo. Quelle post-moderne sono comunità molto più effimere che si fanno e disfanno nel giro di pochissimo, legate, come sono, dal comune interesse del momento.
I membri di queste “neo-tribù post-moderne” non amano sottostare a regole troppo rigide e pesanti, non fanno parte di un ordine di una confraternita, di un’associazione o di un club, né nascono dall’operazione mentale di qualche agente esterno (non sono uno “stile di vita, una nicchia, o un segmento). Anzi, è molto difficile definire le caratteristiche dei componenti di queste neo-tribù, perché essi sono molto vari; i componenti stessi, spesso appartengono a più tribù contemporaneamente a seconda dei settori della vita quotidiana e dei loro personalissimi interessi.
Raggruppamenti emozionali di questo tipo sono sempre esistiti (si pensi ai mods o agli skinheads) […]

Oggi, ciò che riesce ad accomunare gli individui è proprio il fatto di consumare tutti la stessa cosa, insieme e nello stesso momento.
È questa la “strada concettuale” che ha portato il marketing ad interessarsi al vissuto quotidiano dei suoi consumatori al fine di riuscire, almeno in parte, a definire i momenti dell’interazione tra prodotti, servizi e clienti alla ricerca di una propria identità.
Il marketing tribale nasce in Europa, in contrapposizione al marketing one to one d’origine americana. Il suo principale teorizzatore è stato Bernard Cova che nel 2003 ha messo in evidenza come, nell’ottica Europea, e ancor più in quella mediterranea e latina, il consumismo attuale, invece di tuffarsi nelle onde sfrenate della personalizzazione, dell’individualismo e dell’innovazione, dà luogo a quel “ri-radicamento” di cui abbiamo appena parlato, attraverso la ricerca di comunità emozionali, legami sociali e radici comuni. All’individualismo ed al marketing one to one di tipo anglosassone, si oppone, così, la ricerca di legami sociali di tipo arcaico in seno a raggruppamenti che hanno sempre più le sembianze di tribù.
“Il marketing one to one usa la relazione come un mezzo per giungere ad uno scopo - cioè arrivare all’individuo - mentre il marketing di tipo tribale fa della relazione il vero scopo, e dell’emozione condivisa il mezzo per giungere a tale scopo.” (Cova, B.)
Il marketing tribale nasce (contrariamente a quello one to one) con l’obiettivo di mantenere e rinforzare (non tanto di creare) i legami fra i clienti, aiutandoli a condividere le loro passioni ed i loro interessi.
[…]
Nell’ambito di queste nuove tribù postmoderne, il prodotto non è la ragion d’essere, il motivo dell’unione fra i membri, che sono attratti gli uni agli altri più che altro da interessi comuni e dal piacere di condividere certe emozioni. In questo caso, il prodotto ha piuttosto una funzione che è paragonabile a quella del totem per le tribù primitive; esso funge da polo d’attrazione e da supporto per i loro “riti”.
Nel marketing tribale, ci spiega Bernard Cova, è fondamentale capire che non basta inserire della “comunitarietà” nell’immagine di marca o di prodotto (pratica che si è diffusa notevolmente dalla metà degli anni ’90), né che sia sufficiente creare delle banali comunità di marchio intorno al proprio brand (strategia adottata spessissimo nella costruzione della propria formula di webmarketing, inserendo la possibilità di creare forum e newsletters all’interno del proprio sito). Anche se dovessero andare in porto, queste strategie non producono neo-tribù, ma solo raggruppamenti di consumatori interessati ad un prodotto.
Nel loro approccio al marketing tribale, è bene che la maggior parte delle aziende capisca che la marca non può creare una tribù ex novo, la marca può solo rinforzarla, può lavorare in partnership con essa al fine di creare uno scambio reciproco.
Da ciò ne deriva che è necessario che un’operazione di marketing tribale degna di nota sia sempre supportata da una tribù effettiva, già esistente, che faccia da prova alla comunicazione aziendale circa il valore di legame della sua offerta.
“Il marketing tribale si sforza di sostenere il legame sociale fra soggetti uniti da una passione comune (la tribù).” (Cova, B.)
[…]

Il guerrilla marketing

Il termine guerrilla, nell’accezione più comune, nasce “in ambito militare per indicare un particolare tipo di lotta armata, condotta da unità irregolari, contro potenti eserciti regolari”.
Prima ancora di entrare a far parte del linguaggio del marketing, il termine guerrilla è stato adottato da vari gruppi, sia appartenenti al mondo dell’arte (guerrilla art), sia a quello dell’ideologia (comunicazione guerrilla), a loro volta, ispirati alla nota guerrilla urbana appena citata.
Per quanto riguarda la cosiddetta guerrilla communication, con questo termine si intende un particolare tipo di comunicazione messa in atto da alcuni piccoli gruppi, appartenenti al mondo della controcultura che utilizzano pratiche finalizzate ad attuare interventi sovversivi nell’ambito dei più comuni processi comunicativi. I metodi più comuni utilizzati in questo contesto sono : la divulgazione di falsi scoop; i travestimenti; azioni sovversive di vario tipo; l’inversione di senso di alcuni messaggi pubblicitari
[…]
La guerrilla art, invece, è quel tipo di arte che si esprime grazie ad un linguaggio sovversivo, provocatorio, dissonante legato sia alla cultura “alta” che a quella proveniente dal basso. Lo scopo principale di questo stile espressivo è quello di “mettere a nudo il sistema dell’arte con una continua provocazione e acuti detournament2”. La guerrilla art è un modo di fare arte alternativo ai tradizionali metodi di espressione, le cui origini possono essere rintracciate nelle avanguardie artistiche del XX secolo (futurismo e dadaismo, passando per movimenti come il fluxus e il situazionismo).
[…]
“Ma, come spesso accade, l’arte diventa tecnica e subito viene inglobata dal sistema economico-produttivo e Jay Conrad Levinson s’inventa il termine Guerrilla Marketing. Di lì in poi, paradossalmente, il termine Guerrilla Marketing (o Communication Guerrilla) inizia a subire tutta la superficialità ed il pressapochismo da cui le sue avanguardie volevano salvarci, confondendo distribuzione di campioncini con eventi creativi, marketing con critica sociale3.”
Forse i termini di questa ultima citazione sono pochi ortodossi per una tesi di laurea, ma essa descrive perfettamente ciò che è successo.
Il termine guerrilla entra a far parte del marketing grazie a Jay Conrad Levinson che dal 1989 al 2005, in soli sedici anni, ha scritto più di trenta volumi sulla pubblicità guerrilla e sul guerrilla marketing.
Come per la guerrilla art e la guerrilla communication, anche la pubblicità guerrilla nasce con l’intento di emergere tra miliardi di messaggi pubblicitari ed attirare l’attenzione del consumatore grazie al suo modo di agire e comunicare molto innovativo, solo che in questo caso lo scopo è il profitto.
Essa usa tecniche originali, non convenzionali, imprevedibili e fuori da ogni schema: “L’unica regola è non avere regole”
I media utilizzati spaziano dalle installazioni, a stickers appiccicati ovunque, agli stamps sui muri, a flyers particolarmente originali, fino ad arrivare alle scritte nei posti più impensati, come il fondo di un bicchiere, l’asse all’ingresso di un parcheggio. O la fronte di alcuni ragazzi incaricati di andare in giro per strada e farsi vedere dalla gente.
[…]
Ma non solo. Oltre ad inventare nuovi mezzi, la pubblicità guerrilla trova anche nuovi modi per utilizzare i vecchi. Ad esempio, a Tokyo, la Adidas ha utilizzato un cartellone pubblicitario raffigurante un campo di calcio per far giocare due veri calciatori, appesi ad una corda.
Dati i suoi bassi costi, il guerrilla marketing si presta bene per la comunicazione di brand e di prodotto delle piccole aziende che non hanno la possibilità di utilizzare grossi budget per grosse campagne sui media tradizionali. Ma viene abbondantemente utilizzato anche dai megabrand e dalle multinazionali che utilizzano questo metodo per lo più per aumentare la visibilità del marchio.
[…]

Il simplicity marketing

Steve Cristal1, nel 2002, proporrà un'ulteriore formula di marketing che cerca di sopperire al fatto che oggi la gente ha poco tempo per ascoltare ed acquistare e, di contro, i messaggi pubblicitari, i prodotti e le offerte sono troppi e spesso troppo complessi.
“Make it simple” è lo slogan del simplicity marketing, volto alla semplicità a 360 gradi: dal prodotto al packaging, alla pubblicità, all’acquisto.
Questa teoria si basa sull’assunto che per i consumatori di oggi, consumare sia diventato più un problema che un piacere e quindi che sia necessario escogitare delle soluzioni che rendano più semplice questa pratica.
Il concetto della semplicità non è nuovo, molte aziende che producono beni per anziani o bambini si sono sempre sforzate di adottare formule di vendita che risultassero semplici per il cliente.
Il problema è che oggi, bombardati da migliaia di informazioni al giorno, siamo tutti ad essere frastornati e (secondo Cristol) ci ricordiamo solo di chi è effettivamente sintetico, chiaro e coerente (se non addirittura unbranded). Questo disagio spiegherebbe il successo della moda minimal, sia nell’arredamento che in molti altri settori del consumo.
[…]
Negli ultimi anni, la strategia del puntare alla semplicità è stata usata largamente anche nel marketing iconico-visivo. Molti operatori di marketing hanno notato che l’innumerevole quantità di testi che ci circondano ogni giorno, tra quotidiani, riviste, libri e documenti web, creano una certa “verbofobia” nel consumatore che tende così a prestare sempre meno attenzione verso la parola scritta. Per questi marketer, i simboli ed i loghi dovrebbero perciò avere un maggiore appeal sul destinatario della loro comunicazione (si pensi al baffo o “swoosh” della Nike). In tale cotesto, un numero sempre crescente di marche preferiscono così affidarsi ad una visual identità semplice e pulita, basata sempre più su simboli di immediato riconoscimento, “globali”, che puntino sulle emozioni più che sul ragionamento. […]

Il viral marketing

Anche il concetto di marketing virale è stato formulato da Seth Godin7 nel 2000, nel suo volume Propagare l’idea virus, riprendendo la teoria introdotta da Malcom Gladwell ne “Il punto Critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti”.
La tesi di Malcom Gladwell è che un'idea, una moda o un comportamento sociale si diffondano come le epidemie. Gli stessi modelli matematici che ci spiegano la diffusione dell'influenza o dell'AIDS, possono aiutarci a capire, ad esempio, come la gente si sia affollata per acquistare le magliette della Guru o per vedere il film Harry Potter, oppure come sia stato possibile che molti giovani improvvisamente si siano messi a lanciare sassi dai cavalcavia.
Ad un certo punto si raggiunge il cosiddetto punto critico, oltre il quale si ottiene un effetto a valanga. L’autore, nel suo volume, arriva a formulare una “legge”, da lui chiamata la “Regola del 150”, che ha addirittura le sembianze di una legge scientifica :
“Bastano 150 persone che frequentino gli stessi cinque o sei bar, per causare un’epidemia che infetta una città di 100 mila abitanti8.”
[…]
Seth Godin riprende le teorie di Gladwell per formulare una vera e propria strategia per il marketing.
Tenendo presente che le mode, le tendenze e conseguentemente i consumi, spesso hanno le sembianze di “epidemie” improvvise ed inarrestabili, egli propone di andare ad indagare su quali (o meglio chi) siano i cosiddetti connettori, cioè alcuni soggetti (generalmente pochi) che propagano il virus che poi si diffonde attraverso il “passaparola”. Questi connettori possono essere sia leader di una certa comunità o di un certo gruppo, ma anche i venditori stessi.
Godin, quindi, arriva a concepire una formula di marketing che spinga gli operatori del settore a prestare molta attenzione al passaparola, strumento molto antico e potente che, grazie ad Internet, ha incrementato la sua presenza e la sua forza.
[...]
Una strategia virale molto usata dalle grosse aziende è quella di regalare il prodotto che si desidera pubblicizzare ad un gruppo di persone, in modo che esso circoli da soggetto a soggetto, creando un circolo di passaparola che diffonda consapevolezza fra i consumatori e ne inneschi il desiderio di acquistarlo. Ad esempio, la Sony Ericsson ha lanciato negli Usa il suo primo cellulare con fotocamera regalandolo a gruppi di persone che dovevano farsi fotografare per la strada facendo conoscere il prodotto e soprattutto facendolo usare, per innescare nel potenziale acquirente contemporaneamente: un nuovo desiderio, la consapevolezza di un nuovo servizio e, nello stesso tempo, proponendo un nuovo gioco ed un modo di comunicare che non si conosceva ancora.
[...]

Il reverse marketing

Un’altra definizione innovativa è quella di “marketing al contrario, basato sull’assunto che il capo dell’azienda sia il consumatore e che prima venga questo e poi l’azienda. Insomma, invece di marketing business to consumer (BtoC), qui si parla di marketing consumer to business (CtoB) e di Customer manager e non di Product Manager.

Il concetto di riverse marketing si presenta come un’evoluzione del marketing orientato alla qualità ed al cliente ed è stato esposto per la prima volta da M. R. Leenders e D. L. Blenkhorn già nel 19876; solo che allora i tempi non erano ancora maturi perché le loro tesi venissero accolte dalle aziende, ed il riverse marketing ha dovuto attendere una decina di anni per diffondersi.
Il riverse marketing ha molti fattori in comune con il marketing one to one. La differenza giace nel fatto che laddove il marketing one to one punta alla personalizzazione del dialogo, limitandosi però alla centralità del cliente, il reverse marketing cerca di evidenziare e sfruttare anche i numerosi vantaggi che possono scaturire dall’intero ambiente esterno. Nel reverse marketing, cioè, l’idea di centralità del cliente evolve in quella di centralità del mondo esterno.

Il riverse marketing cerca di puntare all’eccellenza attraverso una forte predisposizione ad ascoltare l’ambiente ed assecondare gli interlocutori esterni di ogni tipo. Ciò dovrebbe permettere, secondo questa teoria, di creare una rete relazionale generatrice di business, in grado a sua volta di riprodursi in modo più che proporzionale, se non esponenziale.
Il reverse marketing ha, quindi, come principale obiettivo, quello di creare l’ambiente ottimale in cui la clientela, i fornitori e tutti gli attori esterni si muovano verso l’azienda grazie alla continua presenza e al continuo mantenimento di una relazione.
[…]

Il permission marketing

Nel 1999, è stato Seth Godin a coniare il termine Permission per indicare quelle strategie di comunicazione di marketing che presuppongano la costituzione di una “relazione” tra l’azienda ed il consumatore basata sul consenso di quest’ultimo e, per questo motivo, contrapposte all’interruption marketing.
“Il tempo è divenuto una risorsa scarsa per chiunque e non serve più a molto alle aziende sbattere in faccia messaggi pubblicitari in momenti di pausa o in momenti di ozio del consumatore” (Godin, S., op. cit, 2000, introduzione)

Questa teoria deriva dalla constatazione, da parte di Godin, che il consumatore ha sempre meno tempo per dare attenzione a sempre più messaggi pubblicitari. Per cui egli ha ritenuto necessario escogitare una formula di promozione meno intrusiva in cui al consumatore viene chiesto il permesso di divenire il destinatario di messaggi pubblicitari pertinenti ai suoi consumi, interessi, aspettative e necessità.
Nella sua teorizzazione originaria, la strategia di permission marketing prevede che l’ottenimento del permesso del consumatore debba avvenire gradualmente e senza risultare troppo intrusivi.
[…]
In questo modo, secondo Godin, l’azienda sarà percepita non più come un’estranea che vuole invadere la privacy del cliente, ma come amica che vuole guadagnarne il consenso. In questa maniera, la clientela potenziale dovrebbe divenire molto più disposta a prestare attenzione ai messaggi promozionali e ad effettuare il primo acquisto.
L’investimento iniziale in questo caso sarebbe molto maggiore di quello di una comune strategia di interruption marketing, ma porterebbe ad una fidelizzazione del cliente più a lungo termine.
Godin si rivela critico nei confronti della teoria del marketing one to one perché improntata più all’aumento delle vendite e delle transazioni che all’aumento dei clienti; in quest’ultimo tipo di strategia, i costi, i rischi e gli sforzi maggiori sono impiegati per aumentare la base dei clienti.
Il permission marketing, invece, si concentra nel rendere clienti effettivi tutti i potenziali, cercando di avere una relazione condivisa e discreta e vendere loro quello che chiedono.
[…]

Il marketing one to one

A parlare di marketing one to one sono stati Don Pepper e Martha Rogers che nel 1996 e nel 1999 presentarono le loro idee su Internet, costruendo un apposito sito.
Il marketing one to one è tanto semplice da spiegare quanto difficoltoso da attuare. L’idea su cui si basa è molto buona, ma rappresenta un’eventualità utopica, almeno per le grandi e medie aziende: quella di trattare ogni singolo cliente in maniera differente, al fine di avere una clientela soddisfatta fedele e redditizia.
Il programma della strategia one to one di divide in quattro fasi:
1. identificazione del cliente
2. differenziazione dello stesso da altri
3. interazione
4. personalizzazione dei prodotti e servizi offerti
Queste quattro fasi sono correlate da attività finalizzate a conoscere i propri clienti sempre meglio e ad accontentarli sulle loro singole esigenze.
È importante sottolineare che non si tratta dei semplici programmi fedeltà del cosiddetto Frequency Marketing, finalizzati a conoscere meglio i gusti dei clienti (come le carte fedeltà dei grandi ipermercati); il programma del marketing one to one prevede la costituzione di enormi database che tengano conto in modo dinamico e propositivo di tutta una serie di richieste più o meno espresse dal consumatore. Successivamente, gli operatori decideranno di soddisfare o meno le richieste in base all’importanza del cliente.
[…]

Il Marketing esperienziale e dell’occasione

“Non mi preoccupa chi pratica sconti, ma chi offre un’esperienza di acquisto migliore”
(Jeff Bezos, Presidente di Amazon. Com)

Sono stati Joe Pine e James Gillmore a parlare par la prima volta (nel 1993) della necessità di accostare il tema delle esperienze a quello della customizzazione di massa. Esperienze che divertano il cliente e forniscano i beni e servizi di una certa “teatralità”. All’inizio il marketing dell’esperienza è stato per lo più considerato riguardo ai punti vendita. Successivamente, con l’avvento della Rete, Internet ha dato molte altre possibilità per mettere in atto strategie volte a donare molteplici occasioni di consumo e di vita al consumatore.
In un mondo fatto di sempre più prodotti, tutti dalle elevate qualità, il rischio più grosso è che essi appaino tutti uguali agli occhi del consumatore. È questo il motivo per cui le aziende hanno sentito la necessità di aggiungere sempre più fattori di differenziazione. In questo contesto, il marketing dell’esperienza si pone l’obiettivo di aggiungere degli attributi al prodotto o alla marca, che non siano però costitutivi di essi, bensì che accompagnino il cliente durante l’intero processo di acquisto.
Si pensi alle molteplici alternative che vengono offerte al consumatore attraverso i grandi centri commerciali della grande distribuzione o ai locali e negozi moderni come l’Hard Rock Café che nacquero proprio intorno agli inizi degli anni ’90 94
In tale circostanza, il vero prodotto diviene l’esperienza di consumo, e con essa, il piacere ed il divertimento, che contribuiscono a creare distinzione, interesse, attenzione ed affezione (sebbene molte volte queste esperienze risultino un po’ forzate e fasulle).
In questo tipo di marketing, le esperienze create dalle aziende hanno l’obiettivo di coinvolgere emotivamente e profondamente il consumatore e pongono quindi in primo piano la gestione delle emozioni suscitate nell’individuo.
[…]
L’azienda, grazie a questo nuovo tipo di marketing, è messa nelle condizioni di poter stupire veramente. Basta riuscire ad individuare nuove occasioni di consumo, o di re-interpretare quelle gia esistenti, al fine di incontrare le nuove sensibilità delle persone.
“La bellezza dell’occasione è seducente perchè implica – come diceva Stendhal – la promessa della felicità: essa è connessa con la novità, la curiosità, l’incompiutezza e l’ebbrezza.”2
In tale contesto si noti come ormai l’analisi di mercato vada sempre più incontrandosi con la sintesi creativa e progettuale, in quanto i competitor non sono più soltanto altre marche o prodotti, ma addirittura altre opzioni di vita.
[…]
In tale contesto, il Future Concept Lab37 ha formulato dieci chiavi d’accesso3 al marketing dell’occasione utili per interpretare lo stile di consumo che queste strategie possono indurre:

• Sostituire in termini strategici l’occasione di vita allo stile di vita.
• Creare l’occasione fruitiva attraverso uno scarto nella quotidianità proposto dal servizio o dal prodotto
• Produrre corto-circuiti tra storia del prodotto e poetica del quotidiano.
• Individuare occasioni potenziali nella lettura del contesto, in cui inserire esperienze di valore.
• Integrare l’identità del prodotto con servizi fondati sull’occasione.
• Diventare attrattori strani attraverso occasioni speciali.
• Lavorare sulla diversità delle culture per suggerire occasioni alternative.
• Considerare con attenzione le specificità dell’occasione: sorpresa, novità, eccitazione attraverso il prodotto/servizio.
• Progettare spazi di vendita che siano occasioni di fruizione sperimentale.
• Immaginare comunicazioni che rivelino nuove occasioni d’uso.
© Future Concept Lab

[…]

Ci accingiamo, ora, ad approntare un breve excursus sulle principali nuove strategie ideate negli ultimi quindici anni che rientrano nella categoria del “nuovo marketing”.
Si noti che, quelli che stiamo per presentare non sono differenti “religioni, filosofie o dogmi”, sono semplicemente nuovi “stili” e definizioni delle più recenti strategie adottate nel campo del marketing.
In molti casi si vedrà come esse siano più che altro nuove applicazioni di regole precedenti e come possano essere utilizzati contemporaneamente o alternativamente a quelle del marketing di sempre.

Il Marketing relazionale

Il concetto di Relationship Marketing è stato formulato per la prima volta da Regis McKenna1 nel 1992.
Per marketing relazionale si intende un marketing incentrato sull’obiettivo costante di instaurare una relazione personale e diretta tra azienda e consumatore. Grazie ad esso, il “monologo narcisista” che ha segnato gli ultimi venti anni di storia della comunicazione d’impresa, si è indebolito a favore di comportamenti più orientati al dialogo ed all’ascolto.
Nel nuovo modello proposto dal relationship marketing, la relazione (anche in termini di passione condivisa e di motivazione reciproca) finalmente arriva a precedere il consumo.
[…]
Il relationship marketing deriva dalla presa di coscienza, da parte di molte aziende, che il capitale relazionale dell’impresa con i clienti, i dipendenti ed i fornitori abbia molto più valore per un’impresa, di quanto ne abbiano finanche le sue caratteristiche fisiche.
[…]
È chiaro che le aziende debbano ripensare a condizioni migliori per instaurare un vero dialogo con il consumatore e per far sì che questo dialogo porti a buon fine.
È importante che esse capiscano che oggi non c’è più un “consumo che precede la relazione”, per cui prima ci si dota di un prodotto considerato utile per rafforzare l’identità e poi se ne parla. Questo modello, che fino a qualche anno fa ha funzionato con straordinaria maestria, oggi non è più adeguato.
Il consumatore contemporaneo è ormai abituato a parlare, informarsi, ragionare e capire se veramente valga la pena comprare un prodotto prima di acquistarlo.
Dunque la relazione a cui un’azienda deve puntare deve essere quella che metta il cliente nelle condizioni di sentirsi considerato intelligente prima ancora che eccitato dal possibile acquisto e deve fare in modo che il consumatore percepisca la comunicazione dell’impresa in questione come un’opportunità reale e non come una becera promozione.

La struttura dell’offerta di pubblicità su Internet è in fase di continua evoluzione. Gli attori di questo mercato sono aziende con diversi gradi di specializzazione rispetto sia ad Internet che al mercato pubblicitario.
E’ evidente che il pieno sfruttamento delle potenzialità della pubblicità in rete è una condizione fondamentale per lo sviluppo dell’economia legata ad Internet. Per raggiungere questo obiettivo è necessario conoscere e saper sfruttare in maniera opportuna le diverse strategie di comunicazione basate sulla rete. Ecco alcuni esempi.

• Strategia finalizzata alla notorietà del marchio o del sito: questa è la forma di utilizzo del web che meno sfrutta le opportunità offerte da Internet. Generalmente una campagna di questo tipo consiste nell’inserimento di banner in siti caratterizzati da un alto volume di traffico e con una targettizzazione non obbligatoriamente determinata. L’obiettivo di queste campagne è quello di diffondere il brand o far conoscere un prodotto senza avere la finalità principale di indurre il navigatore nel ciccare sul banner e visitare il sito. L’esposizione del banner aumenta, quindi, la notorietà del marchio pubblicizzato, come avviene per uno spot televisivo o una pagina pubblicitaria su una rivista. In questo caso, il web viene utilizzato con logiche di comunicazione proprie dei media tradizionali: variabili strategiche sono la numerosità del pubblico raggiunto almeno una volta dal messaggio (reach) e il numero medio di esposizioni realizzate per individuo (frequency).

• Strategia finalizzata alla generazione di visite: in questo caso la campagna è concepita per generare traffico su un particolare sito web target. La valutazione dell’efficacia della campagna deve essere effettuata valutando e misurando il numero di visite al sito web pubblicizzato generate dallo stesso annuncio e il numero del click-through, cioè il numero delle volte in cui il banner dell’inserzionista è stato cliccato. La valutazione dell’efficacia di questo metodo deve essere corretta considerando che un navigatore che ha cliccato sul banner può decidere di interrompere il trasferimento dei file che compongono la pagina web associata (target ad), perché per esempio si rende conto di aver commesso un errore o perché la pagina è troppo lenta nel visualizzarsi, e via dicendo: in tutti questi casi l’advertising server registra un click-through, pur non verificandosi alcuna visita reale al sito pubblicizzato.

• Strategia finalizzata al rapporto personale: vengono classificate in questa categoria tutte le iniziative che hanno lo scopo di creare un rapporto di one to one marketing tra l’azienda e il cliente. Tra queste si devono considerare tutti i servizi personalizzati di informazioni, alert e gestioni personalizzate con profilazione dell’utente. Questi servizi possono essere forniti al cliente solo dopo registrazione in un sistema di membership costruendo in tal modo una banca dati di informazioni sul loro conto, e come contropartita forniscono loro l’accesso ad una serie di sevizi esclusivi.
La variabile strategica maggiormente utilizzata per valutare questo tipo di campagna è il numero di visite ripetute, che misura la capacità di un sito di creare un rapporto continuativo con il cliente facendo in modo che egli torni ripetutamente a visitarlo e il numero dei clienti registrati al servizio.

• Strategia finalizzata alle vendite: questa strategia risulta ottima per tutti i siti web che offrono servizi a pagamento per i clienti sia on line che off line. Non è detto, infatti, che l’obiettivo di aumentare le vendite debba essere conseguito tramite l’e-commerce ma sicuramente l’e-commerce deve essere sinergico con la massimizzazione delle vendite off-line. Le variabili strategiche per la valutazione dell’efficacia delle campagne sono il fatturato, il numero di prodotti venduti, il numero di nuovi clienti acquisiti.

• Strategia finalizzata alla diffusione di comunità virtuali: l’obiettivo della strategia è invece quello di creare una comunità virtuale che direttamente o indirettamente possa far riferimento all’immagine o al prodotto dell’azienda. Le comunità virtuali sono comunità di persone che, per motivi professionali, per passioni individuali o per puro divertimento, condividono l’interesse per un determinato argomento, e utilizzano Internet per scambiarsi opinioni, esperienze, scoperte personali, consigli . Nasce così un nuovo modo di considerare il rapporto tra azienda e cliente: questi non è più un soggetto passivo a cui inculcare una determinata convinzione tramite la pubblicità, ma diventa parte attiva, fino ad essere addirittura partner dell’impresa nel processo di progettazione e sviluppo del prodotto. “La misurazione dell’efficacia di iniziative strategiche di questo tipo può essere fatta attraverso la valutazione della numerosità della comunità virtuale legata all’azienda, o considerando la portata qualitativa degli interventi che vengono realizzati; un giudizio completo, comunque, non può che derivare da un’analisi ex post che valuti in modo globale costi e benefici dell’iniziativa”.

La segmentazione

Le prime tecniche di segmentazione, risalenti agli anni ’50, si basavano sulle variabili sociodemografiche (sesso, età, reddito, livello di scolarità, etc.) facilmente reperibili e di facile utilizzo, ma di limitata utilità per un’efficace segmentazione data la naturale interazione reciproca di tali variabili.
Inoltre, la realtà sociale del consumo sempre più complessa richiedeva strumenti più sofisticati e attenti alle dinamiche di acquisto dei consumatori.

In quest’ottica si inseriscono le tecniche di segmentazione psicografica: esse basano l’individuazione dei diversi segmenti sull’analisi delle caratteristiche delle diverse personalità individuali, utilizzando inizialmente i test di personalità , rivelatisi inadatti, per poi passare a strumenti più adeguati, come le scale d’ atteggiamento.

Il primo vero tentativo di psicografia fu quello di Emanuel Demby, che nel 1964 riuscì ad identificare, in una sua ricerca, due categorie di acquirenti di nuovi prodotti: i “creativi” ed i “passivi”, caratterizzati anche da diversi interessi e attività quotidiane, ma visti unicamente in quanto strettamente legati al fenomeno di consumo considerato.
Successivamente, si è cercato di considerare l’individuo appartenente ad un determinato segmento nella sua totalità, in qualsiasi situazione lo si consideri, prendendo in analisi il concetto di “stile di vita”: questo, abbiamo osservato, non è più visto come elemento di “distinzione sociale”, come proponeva Weber, ma come “insieme dei valori, atteggiamenti, opinioni e comportamenti che manifestano l’ unicità della personalità del soggetto nella sua globalità, e di cui il consumo è soltanto una delle tante componenti” .
Il modello teorico utilizzato alla base della maggior parte delle ricerche psicografiche è il cosiddetto VALS (Values and LifeStyles) messo a punto da A. Mitchell sulla base della teoria di Maslow sulle “motivazioni dominanti”; questa prevede una gerarchia di cinque tipi di bisogni basici che spingono l’individuo ad agire, ognuno dei quali si manifesta solo quando sono stati soddisfatti i bisogni collocati ai livelli inferiori.

Nella segmentazione VALS ad ognuno di questi livelli corrisponde un segmento della popolazione degli Stati Uniti: ciò porta all’individuazione di otto stili di vita, distinguendo anche tra due possibili percorsi, “autodiretto” ed “eterodiretto”, per la soddisfazione dei propri bisogni.
Il concetto di stile di vita si è rivelato un efficace mezzo di segmentazione e di costruzione di “mappe socio-culturali” (in Italia la prima ricerca psicografica, ancora oggi utilizzata, è stata la Psicografia Eurisko, condotta da G. Calvi e oggi denominata Sinottica), anche se gli ulteriori mutamenti nella società e nel consumo, che si sono verificati soprattutto tra gli anni ’80 e ’90, hanno in parte reso impossibile il tradizionale ricorso alla segmentazione ed agli stessi stili di vita, come abbiamo accennato nel capitolo precedente.

Un tentativo di seguire il cambiamento sociale in modo più accurato, e a livello globale, è rappresentato dal sistema 3SC (Sistema di Correnti Socio-Culturali e Scenari di Cambiamento) messo a punto da Alain de Vulpian nel 1972 e successivamente adottato da quattordici istituti di ricerca in diverse nazioni, associati nel RISC (Research Institute of Social Change).
Questa ricerca si fonda su una filosofia “evoluzionista”, prendendo in considerazione lo sviluppo verso una sempre più forte modernità socioculturale; essa consente inoltre la comparazione dei risultati con quelli precedentemente osservati (misurando così l’entità del cambiamento avvenuto) tenendo sotto controllo cinque aree principali di cambiamento socioculturale:

Le mentalità, le sensibilità, i valori, le aspirazioni, le motivazioni e i tratti di personalità;

1) I costumi e i modi di vita;
2) Le produzioni culturali;
3) Le strutture sociali informali;
4) I paradigmi, ovvero i principali sistemi di credenze, e le rappresentazioni collettive.

Attraverso il trattamento con tecniche fattoriali dei dati ottenuti da interviste, basate su items riguardanti valori e atteggiamenti, si identificano delle “correnti socioculturali” utilizzabili come indicatori sintetici del cambiamento, nonché come variabili attive di segmentazione.
L’importanza di una tale ricerca è evidente se si considera la crescente internazionalizzazione o globalizzazione dei mercati e delle culture: ciò porta alla costituzione di settori di mercato sempre più omogenei a dispetto delle diversità nazionali, soprattutto per alcune nicchie di consumatori più “evoluti” e più coinvolti nella modernizzazione e nell’innovazione delle tecnologie comunicative che contribuiscono a creare quel “villaggio globale” di cui parla McLuhan; in esso, ad un’omogeneizzazione crescente a livello mondiale, si accompagna la permanenza, o a volte la presa di coscienza, delle subculture locali e personali, dando luogo a stili di vita e di consumo sempre più numerosi e flessibili, dunque meno efficacemente esplicativi di una società in cui il consumo si pone sempre più come un complesso sistema di comunicazione veicolante molteplici significati e messaggi.
Ciò nonostante, la segmentazione svolge un ruolo fondamentale nell’elaborare strategie di marketing adatte ai target individuati. Ogni segmento, infatti, ha i propri bisogni e i suoi diversi schemi di risposta ai differenti marketing mix.
I segmenti più attraenti sono individuati secondo le risorse dell’impresa; i target più interessanti sono quelli che in genere sono più proficui, vale a dire i segmenti più vicini all’impresa, i gruppi di clienti fedeli o di forti consumatori di un particolare prodotto.

Individuare un target riduce gli sprechi di risorse (per esempio il denaro speso in pubblicità di massa) e, infine, può far aumentare le vendite in quanto sono contattati gli acquirenti più adatti.
Con la frammentazione del mercato di massa e la sua divisione in segmenti, e grazie alla possibilità di comunicazioni sempre più mirate offerte dalle nuove tecnologie (si pensi alla pubblicità su Internet), c’è sempre meno bisogno di marketing e comunicazioni di massa.
E’ sempre più importante, anche se difficile, segmentare accuratamente il mercato, individuando i segmenti più proficui.

Idealmente i segmenti ottenuti dovrebbero soddisfare i seguenti criteri:

1) Misurabilità: il segmento si può quantificare? Possono essere identificati i consumatori che vi ricadono?

2) Sostanzialità: quanti consumatori entrano nel segmento? Sono in numero sufficiente per garantire un’attenzione particolare a quel target?

3) Accessibilità: può essere contattato facilmente? Può essere isolato da altri segmenti? Ci sono mass media e canali di distribuzione per accedere a questo segmento?

4) Rilevanza: i benefici offerti dal prodotto devono essere rilevanti per il target o percepiti come tali. E’ perciò fondamentale conoscere il profilo del “consumatore ideale” per indirizzare nel modo giusto i messaggi appropriati attraverso i canali più adatti. Bisogna inoltre tenere in considerazione tutti coloro che rientrano nel processo di decisione d’acquisto, dall’utilizzatore all’acquirente, a eventuali influenzatori.

venerdì 19 febbraio 2010

Che si tratti di una homepage personale o di uno spazio per il commercio elettronico, un sito non nasce, e non deve nascere, mai per caso. Sono passati i tempi in cui la motivazione a mettere qualcosa sul Web era legata al solo desiderio di imitazione (se lo fanno gli altri devo farlo anch'io).
Conoscere l'obiettivo è il più importante passo per qualsiasi progetto che hai in mente.
L'obiettivo è vitale per sapere dove stai andando e come andarci. Hai mai visto una barca viaggiare senza meta? Un buon capitano di una nave prima di partire pianifica la rotta per arrivare a destinazione ed il suo compito è di fare in modo che la barca ci arrivi.
Così come il marinaio, devi avere ben chiaro qual é l'obiettivo del tuo sito web in modo da sapere quale sarà la rotta da seguire.
Un sito web ha un significato se è abbinato ad uno scopo, ma di per sé non ha un suo significato specifico. Che sito hai visitato oggi? Perché lo hai visitato? Cosa stavi cercando?
Quando ti colleghi al sito della tua banca, il tuo scopo è di gestire il tuo conto facendo bonifici, controllando gli estratti conto e i vari incassi. Non provi piacere nel gestire il tuo conto online, ma una volta controllato che il tuo conto è in ordine e pieno di euro, proverai piacere nell'aprire una bottiglia di vino e festeggiare i tuoi successi commerciali.
Il sito della banca è solo il mezzo per arrivare ad aprire quella bottiglia di vino.
Per capire con quali modalità promuovere un sito è innanzitutto importante comprendere quali scopi si vogliono raggiungere attraverso lo stesso, per non rischiare investire tempo e risorse nella direzione sbagliata.

Qui ho voluto provare con voi ad individuare esempi di tali obiettivi che non sono per forza mutuamente esclusivi ma che, anzi, possono presentarsi in fasi diverse della crescita di un sito e che vanno perseguiti utilizzando strategie diverse, molto spesso complementari tra loro.
Ecco alcuni esempi:
• Avere traffico sulla homepage del sito
• Aumentare il tempo di permanenza degli utenti sul sito
• Raccogliere iscritti ad una newsletter
• Generare traffico qualificato (ovvero di visitatori veramente interessati a quanto proponete sul sito)
• Avere visitatori ricorrenti
• Generare guadagni attraverso i programmi di affiliazione
• Coinvolgere i visitatori nell'interazione in un forum
• Stimolare i visitatori a scaricare o condividere files
• Acquisire nuovi clienti per il proprio negozio offline
• Acquisire nuovi clienti vendendo online
• Fidelizzare i clienti già acquisiti
Anche sul Web, vale il proverbio "chi ben comincia è già a metà dell'opera". Il successo (o l'insuccesso) di un sito inizia infatti dalla fase di progettazione e una buona strategia di web marketing parte dal primo tag "html" che inserite nel sito.

Proviamo a dare delle linee guida su come “stillare la vostra carta degli obiettivi”.
L'obiettivo deve essere semplice e ben definito
_Vorrei un sito web colorato, magari con una musica di sottofondo e delle immagini in scorrimento che mostrino....
_Perché?
_Ovvio, vorrei che più persone possibile trovino i nostri prodotti in rete e comprino da noi
_Perché?
_Per vendere di più!
_Come?
_Mostrando come i nostri prodotti siano qualitativamente migliori e a buon mercato della concorrenza
Avere un bel sito è sicuramente uno scopo onorevole, ma se scavi a fondo riuscirai a trovare i veri motivi su cui puntare durante la costruzione del tuo sito web. Basta che ti domandi il "come" e il "perché" e puoi scomporre l'obiettivo fino a renderlo più semplice e chiaro.
Esempio: lo scopo di un sito web potrebbe essere quello di ottenere più visite possibili sperando in un conseguente aumento del valore di conversione ovvero il numero di lettori del sito che intraprendono una data azione come il contatto o l'acquisto. Il ritorno economico del sito è certamente importante, ma non è detto che esso debba essere raggiunto solamente all'aumentare del numero di visitatori quindi può essere inutile concentrarsi sull'aumento dei visitatori.
L'obiettivo deve essere realistico
Avere uno scopo che sia realisticamente raggiungibile rispecchia onestamente il tuo business e soprattutto mantiene alta la motivazione nel raggiungere l'obiettivo. Il mio consiglio è di creare un obiettivo modesto, ma raggiungibile per poi passare ad un nuovo obiettivo più ambizioso appena festeggiato il primo successo.
L'obiettivo deve essere specifico
Un obiettivo specifico si basa su due fattori:
1. In base a che valori viene misurato il nostro avanzamento verso l'obiettivo
2. Cosa deve succedere per ottenere il successo del tuo sito
Esempi di obiettivi generici ben specificati
Vendere più prodotti
"La vendita dei libri è aumentata del 18% negli ultimi 3 mesi."
Fare più profitti
"Abbiamo ridotto le spese di acquisizione clienti del 15% per ogni cliente in soli 6 mesi"
Aumentare il riconoscimento del vostro marchio
"Durante la nostra ultima fiera, il 20% degli intervistati conosceva già il nostro marchio"
Promuovere i nostri prodotti nel web
"Le caratteristiche chiave dei nostri prodotti sono all'avanguardia (prezzo, qualità, sicurezza...). Nell'ultimo sondaggio è emerso che, rispetto all'anno passato, il 20% in più degli intervistati ha menzionato le caratteristiche chiave come valore aggiunto quando richiesto di descrivere il prodotto."
Essere presenti nel web
"Negli ultimi tre mesi abbiamo ottenuto 25 contatti di clienti interessati all'acquisto"
Ottenere tanti visitatori sul nostro sito web
"Siamo nella top 30 su google.come alla ricerca di .... e abbiamo ottenuto 100 visitatori unici al giorno alla specifica pagina sui vantaggi dei nostri servizi."
Includere dei valori quantificabili, ti permette di avere un obiettivo ancora più preciso e ti permette di monitorare i tuo progressi nel tempo.

Riassumendo

Avere un obiettivo per il tuo sito web ti darà tre importanti vantaggi:
Durante il processo di ricerca dell'obiettivo sarai obbligato a pensare veramente a cosa vuoi ottenere. Una volta conclusa la ricerca ottieni un quadro chiaro e completo di dove vuoi arrivare senza ambiguità
L'obiettivo ti aiuterà a decidere cosa è importante per il tuo sito e cosa deve essere scartato rimuovendo ogni dubbio durante la fase di design del sito
L'obiettivo ti permette di misurare i tuoi successi e trasformare il tuo sito web in uno strumento di marketing misurabile. Il tuo sito web non è più un costo, ma un investimento.

lunedì 15 febbraio 2010

Il termine “VISION” (in italiano “Visione”), nell’economia della gestione d’impresa, viene utilizzato nell’ambito della gestione strategica per indicare la proiezione di uno scenario che un imprenditore vuole “vedere” nel futuro e che rispecchia i suoi valori, i suoi ideali e le sue aspirazioni generali. La vision deriva da un processo di coscienza di chi si vuole essere del tipo “out in”, ovvero come ti vedono i tuoi interlocutori. La Vision non è un concetto astratto, ma molto concreto poiché è proprio grazie alla “visione” di tanti imprenditori se oggi il mondo è pieno di innovazione, tecnologia, e nuovi prodotti sempre più avanzati. Cosa sognano questi imprenditori per il loro futuro, per i loro prodotti, per i mercati che servono e per i loro consumatori? E, soprattutto, cosa fanno per fare si che i loro sogni si trasformino in realtà? Cosa significa progettare un’organizzazione aziendale in funzione della loro visione?
Un vision statement: Il "manifesto" della visione
Punti dell’efficacia della vision:
1. essere chiaro e descrivere in modo vivido un’immagine
2. riguardare il futuro
3. essere facilmente ricordabile - sebbene la lunghezza sia variabile è preferibile contenerla il più possibile per facilitarne l’apprendimento
4. contenere espressioni che facciano presa
5. riferirsi ad aspirazioni realistiche o comunque verosimili.
Esempi di visione:
I sogni di imprenditori di successo si sono intrecciati con quelli dei managers, dei lavoratori, dei sindacati e dei consumatori e hanno dato vita ad aziende leader nei loro settori. E’ il caso di di Bill Gates, fondatore della Microsoft Corporation, che ha espresso nella Vision il suo sogno di imprenditore: “Un personal computer su ogni scrivania, e ogni computer con un software Microsoft installato“; oppure è il caso di Henry Ford (fondatore dell’omonima casa automobilistica) :”I cavalli dovranno sparire dalle nostre strade“.O ancora, imprenditori come Walt Disney hanno avuto la loro vision:”Rendere felici le persone“.
Nokia: 1995 – "Our vision: Voice Goes Mobile"; 2005 – "Our vision: Life Goes Mobile"

La VISION deve essere esplicitata e deve essere condivisa con l’intera organizzazione, a tutti i livelli: questo è uno dei principali problemi nella definizione della Vision, poichè ancor oggi troppi imprenditori non hanno ancora compreso a fondo la sua importanza e ne sottovalutano l’impatto che ha a livello aziendale. Una vision chiara, accurata, derivante da attente riflessioni, serve a fare comprendere ai membri del’organizzazione dove l’azienda vuole arrivare, al fine di condividerne i successi.
Una volta compreso cosa è la Vision, non resta altro che renderla esplicita. Questo è un processo che richiede un certo grado di attenzione e una discreta quantità di energie. La prima domanda che potresti porti è: “che tipo di obiettivi voglio definire?” O ancora :”Perché voglio fare questo nuovo investimento?”. Oppure: “Perché voglio aprire questa azienda? Successivamente puoi concentrarti su altri obiettivi, e quindi puoi scegliere tra una gamma abbastanza ampia di obiettivi: obiettivi di redditività; di sviluppo; di leadership di mercato; obiettivi sociali; obiettivi di prezzo; obiettivi di equilibrio finanziario, obiettivi di soddisfazione del cliente eccetera.
In conclusione, hai definito la vision della tua attività? Non ti resta che comunicarla. La fondamentale importanza della comunicazione della propria vision offre sia al mercato che ai collaboratori un'immagine di chiarezza e concretezza che rassicura il primo e fa crescere nei secondi la condivisione e la fattiva collaborazione all’attività aziendale. A titolo di esempi è possibile ricordare i più significativi passaggi, da un’idea di prodotto, a una di mercato che alcune importanti compagnie hanno utilizzato per comunicare la propria vision. Revlon da "vendiamo cosmetici" a "offriamo aspettative di bellezza"; Xerox da "produciamo fotocopiatrici" a "miglioriamo la produttività degli uffici"; Standar Oil da "raffiniamo benzina" a "forniamo energia"; Treccani da "vendiamo enciclopedie" a "diffondiamo informazioni e cultura"; Carrier da "produciamo condizionatori e caldaie" a "offriamo confort". Risulta evidente come l'adozione di una vision di medio periodo possa aprire le prospettive di mercato, allargando le opportunità di crescita.
Va comunicata, a tutti i livelli, da quello strategico a quello operativo, quindi, per capirci, dalla carta intestata, al sito web, ai social network, nelle presentazioni aziendali ecc fino alla nausea.

giovedì 11 febbraio 2010

Più volte ripeto, durante i corsi di formazione e nelle consulenze che quando ci apprestiamo a mettere su un sito, oppure ad aggiornarlo con il SEO in mente, bisogna scrivere per gli utenti e non per i motori di ricerca. Facciamo quindi un passo indietro, cercando di rendere questo fondamentale concetto il più chiaro possibile.

Sappiamo bene che i motori di ricerca, nella determinazione del Ranking di un sito web, usano degli algoritmi. Lo sappiamo bene perché la ricerca della comprensione del loro ragionamento graffia spesso la nostra mente e rappresenta probabilmente la nostra più grande sfida nel SEO. Il discorso inoltre è molto complesso perché possiamo benissimo affermare che se anche qualcuno di noi avesse visto un tale algoritmo, dovrebbe essere un genio della matematica per comprenderlo interamente. O comunque qualcosa che ci si avvicini molto. Questo aspetto comunque, è ciò che rende l’ottimizzazione di un sito per i motori di ricerca una sfida costante.

L’algoritmo del motore di ricerca stabilisce un criterio di valutazione in base al quale tutte le pagine web sono comparate per essere il più pertinenti possibili con la domanda che il navigatore fa al motore di ricerca. Questa valutazione base varia da motore a motore infatti Google, come sappiamo, ha più di 200 fattori che determinano il suo algoritmo, e sebbene possiamo capire alcune parti di esso, non c’è assolutamente modo di capire tutte le parti nella loro completezza. Soprattutto quando Google implementa una mezza dozzina di cambiamenti sull’algoritmo ogni settimana per cercare di assimilare i cambiamenti del modo di pensare delle persone e quindi di come esse effettuano le ricerche nel web. Questi cambiamenti possono riguardare aspetti minori, o maggiori; ma determinano il calcolo alla base del quale l’algoritmo viene continuamente aggiornato. Assodato ciò, quando vogliamo riorganizzare i nostri contenuti web e ottimizzarli per renderli appetibili ai motori di ricerca, dobbiamo tenere in mente alcuni elementi, tra cui, appunto, il più importante: “progettare il sito per le persone”.

Oltre alle cose che sappiamo su come ottimizzare i link, sia in entrata che in uscita (che appunto devono essere tematicamente correlati al contenuto e utili a chi visita il sito) dobbiamo fare caso anche ad altre cose che erroreamente potremmo giudiucare secondarie. Alcune advertising per esempio, nonostante oggi siano guidate e costruite da keywords, sono ancora lontane dall’essere tematicamente correlate al contenuto in alcuni siti web. Questo disorienterà l’utente e di conseguenza il crawler, a cui piacciono link che indirizzano verso pagine più specifiche e che completino le informazioni della pagina da cui il collegamento ipertestuale è partito. Non dimentichiamoci che in fondo, l’utente, è un cliente del crawler.

Abbiamo detto che l’algoritmo varia da motore di ricerca a motore di ricerca. Alcuni preferiscono una alta keywords density, altri danno molta importanza al contenuto e altri ancora, come Google, attribuisce fondamentale importanza ai link. Poi ci sono i meta tag, il cui valore, anche qui, può cambiare da motore di ricerca a motore di ricerca. Inoltre il più di essi combinano questi fattori in un modo che a noi è in buona parte sconosciuto.

Questo è il punto del nostro discorso.
Perché ciò sta a significare che se noi costruissimo, e riorganizzassimo i nostri siti per i motori di ricerca, prenderemmo parte ad un gioco che è come quello del gatto col topo, e saremmo costantemente impegnati nella ricerca di qualcosa che non conosciamo. Se invece noi avessimo in mente solamente gli utenti, costruissimo siti con l’obiettivo primario di soddisfare le richieste esplicite e implicite (perché il nostro lavoro è anche quello di cercare di individuare come il navigatore pensa) dell’utente, creassimo siti facili da navigare, e scrivessimo contenuti utili con una ramificazione di link ragionata e intelligente, rimarremo probabilmente a lungo nelle grazie del motore di ricerca.

Se ragioniamo in questi termini, non saremmo mai un passo indietro a loro. Anzi, forse saremmo, in qualche modo, anche un passo in avanti. Semplicemente perché l’obiettivo del motore di ricerca, è quello di fornire le informazioni più utili possibili agli utenti. Nella maniera in cui loro desiderano.

Ecco alcuni esempi di ECCELLENZA nella comunicazione e nel consolidamento del BRAND: Coca-Cola, Barilla, Martini, Ferrari, Google, etc. dove ormai è il marchio che determina le vendite e quindi il fatturato delle aziende di successo.

Le scelte vincenti di gran parte di questi BIG dell’industria e dei servizi possono essere riassunte nella loro predilizione di offrire un servizio e prodotto al cliente, cercando di focalizzare le proprie energie a disposizione del cliente.

Quindi il cliente diventa “RE” e va “servito/assistito” a 360 gradi, ascoltandolo e risolvendo i suoi problemi e preoccupazioni.

Quindi la struttura aziendale viene ribaltata (se confrontata coi soliti crismi imprenditoriali e industriali degli anni ‘60), si tratta in effetti di una piramide ribaltata:

* Clienti
* Personale di front-office
* Management
* Direzione generale e decisionale

Ma quando il cliente ha un “Valore” ?

Dipende soprattutto dal mercato, in un mercato monopolistico infatti il valore al cliente è bassissimo, mentre accresce il proprio peso specifico già in un mercato oligopolistico per divenire immenso nel mercato concorrenziale (o di concorrenza perfetta).

Qual’è il ruolo del front office?

Il front office, come rappresentato nella piramide rovesciata è il contatto diretto col cliente, quindi risulta in posizione cruciale e fondamentale per captare e gestire di primo acchito le esigenze del cliente.

Inoltre rende facile o difficile il lavoro al back-office (a chi deve produrre e decidere).

Il Brand guida inoltre il posizionamento e le serp. Non solo il brand forte "tira" dietro di sè anche il posizionamento di altri marchi minori. Per questo è importantissimo creare un marchio forte anche attraverso il web marketing, ma soprattutto attraverso la "cura" dei clienti.

Quanti vendono servizi di posizionamento garantito!
Vorrei effettivamente chiarire una volta per tutte questo cruccio ai clienti che approcciano alla SEO e ai relativi professionisti del settore.

Procediamo, come sempre con ordine:

1. NESSUNO, e dico nessuno, può avere la SICUREZZA di posizionare qualsiasi sito per qualsiasi parola chiave su Google & Co., difatti i motori di ricerca utilizzano algoritmi e metodi di ranking non dichiarati, per cui il posizionamento dipende da un calcolo matematico del quale non si conoscono tutti i fattori. Per assurdo, nemmeno un ingegnere di Google è in grado di GARANTIRE il risultato!
2. I servizi di posizionamento e SEO in generale sono rappresentati e semplificati in 3 steps: A) Ottimizzazione on-site; B) Aumento della popolarità online; C) Analisi statistica e webtracking per pianificare le varie attività dei punti precedenti in base ai risultati ottenuti.
3. tutte le forme di servizi di posizionamento, non sono altro che strategie commerciali di vendita del medesimo servizio, cioè tutte le operazioni atte a posizionare i siti web su Google. Le forme tipiche di vendita di questi servizi ai clienti, sono definite e sviluppate per rendere comprensibile e appetibile appunto al cliente stesso ciò che sta andando ad acquistare investendo in SEO, le forme più tipoche per fare ciò sono: consulenza seo, keywords advertising, keywords positioning, creazione pagine e contenuti ottimizzati ed infine posizionamento garantito.
4. I servizi di posizionamento garantito, sono effettivamente una garanzia per il cliente, non del RISULTATO, ma dell’impegno dell’azienda ad ottenerlo (in pratica si tratta di una forma di rassicurazione per il cliente di impegno costante dell’agenzia nel raggiungere i target di posizionamento definiti nell’accordo commerciale).
5. la nostra formula di GARANZIA, di DiversoCMI, è che nessuno ti viene a dire che sarai SICURAMENTE PRIMO, ma se il nostro lavoro non arriva a quei risultati, sarai TUTELATO e avrai la GARANZIA del nostro lavoro al fine di raggiungere l’obiettivo di posizionamento definito e coperto da garanzia

Bene, con questo spero di aver spiegato come funzionano alcuni servizi di posizionamento garantito, e non tutti!!!

Quindi mai generalizzare e soprattutto essere ipocriti, in primis con sé stessi e le proprie scelte professionali, ma anche nei confronti dei CLIENTI!

 

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